Ancora il solito sesso
Da Supersex alle porno influencer
di Chiara Zuccari
Guardando Supersex, la serie ispirata ai primi anni di vita e di carriera di Rocco Siffredi, presentata in anteprima all’ultima Berlinale e dal 6 marzo disponibile su Netflix (dove in poco più di due settimane ha scalato la classifica delle 10 serie più viste della piattaforma, piazzandosi al terzo posto tra quelle non in lingua inglese), la prima cosa che viene da pensare è che sia davvero un’occasione sprecata.
Se da un lato Alessandro Borghi (interprete del protagonista Siffredi, come sempre impeccabile) durante un’intervista promozionale ha sottolineato la necessità, in Italia, di un prodotto che affrontasse questo genere di tematiche e che fosse, anche visivamente, esplicita e spudorata, dall’altra ci siamo trovati di fronte a una narrazione retorica, didascalica ed estetizzata della parabola di Rocco Tano, dall’infanzia difficile a Ortona fino alla definitiva consacrazione del re del porno come lo conosciamo. Che nulla ha a che fare col sesso, con l’eros, con la carnalità. Forse, in alcuni, rari momenti, soprattutto quelli tra Borghi e Jasmine Trinca, ha a che vedere con l’amore e il desiderio. Ma l’impronta di Matteo Rovere (anche produttore con la sua Groenlandia), che l’ha diretta insieme a Francesca Manieri e Francesco Carrozzini, su una sceneggiatura di Francesca Manieri, è inequivocabile, e se ne registrano tutti i limiti.
Perché Supersex non osa mai davvero, perdendo così l’occasione di raccontare i risvolti antropologici, sociali e politici dell’industria pornografica in Italia e della sua iconografia, incarnata dalla figura del pornodivo che ha attecchito proprio in quegli ipersessualizzati e pruriginosi anni 90 raccontati invece vertiginosamente da prodotti seriali di tutt’altro calibro, come Pam & Tommy (prodotta e interpretata dal Seth Rogen di Strafumati e Sausage Party), incentrata sullo scandalo del sextape dell’icona erotica Pamela Anderson e del bad boy Tommy Lee, o American Crime Story: Impeachment, costola dell’American Horror Story creata da un altro nome chiave della serialità contemporanea quale Ryan Murphy, che mette in scena il sexgate che coinvolse l’allora Presidente degli Stati Uniti Bill Clinton e la stagista Monica Lewinsky.
Supersex invece illustra l’ambiente del porno senza arrischiarsi mai davvero a svelarne le pieghe oscene, e imbellettandosi in una confezione patinata che imprigiona il mito di Rocco Siffredi, lo cristallizza senza decostruirlo né indagarlo, riconducendo la sua ascesa alla più banale delle origini, cioè il trauma infantile e i conflitti familiari, che, non a caso, vengono raccontati già a partire dal primo episodio, a voler giustificare, con un moralismo spiccio, tutto quello che verrà dopo.
Allora, forse, non è neanche più il porno in sé a interessarci, quanto la teoria su di esso, la filosofia della pornografia, di cui si possono individuare le due massime esponenti in Valentina Nappi (creatura di Siffredi) e Giulia Zollino, l’una per il mainstream e l’altra per quello che viene definito il “porno femminista” (nonostante Nappi abbia collaborato con Monica Stambrini, uno dei nomi del collettivo Le ragazze del porno, le cui produzioni si rifanno alle teorie del porno etico e femminista).
Se da un lato si è giunti, forse, anche alla fine di un certo modo di fruire i contenuti erotici (come ha detto Nappi al BSMT di Gianluca Gazzoli, le entrate principali, anche per la Regina del Porno, ormai arrivano da OnlyFans), dall’altro è confermata la definitiva caduta del formato televisivo a fronte di una sempre più crescente popolarità dei podcast, che hanno quasi completamente soppiantato non solo la televisione, ma anche lo streaming on demand delle piattaforme, Netflix tra tutte.
Preferiamo davvero parlare di sesso, piuttosto che farlo o guardarlo? D’altronde, in una società privata di ogni desiderio, anche di quello sessuale, è inevitabile un abbassamento della libido. Secondo l’ultimo rapporto del Censis infatti, in Italia oltre l’11,6% (1,6 milioni di persone tra i 18 e i 40 anni) non fa sesso, tanto che gli esperti hanno definito la nostra epoca come quella della recessione sessuale. Abbiamo ancora bisogno del porno, dell’eccitazione, dell’eros? Di certo la rappresentazione di un certo tipo di sessualità – quella portata avanti appunto dalle grandi produzioni porno mainstream, di cui Rocco Siffredi è stato a lungo fautore e simbolo – è stata ampiamente superata, ragione che potrebbe spiegare in parte i risultati delle indagini statistiche: i giovani, soprattutto appartenenti alla Gen Z, spinti da bisogni e istanze differenti, hanno trovato nuovi modi e forme per esplorare la propria e altrui sessualità.
Ecco allora il pullulare di termini come pansessualità, poliamore e non monogamia etica, di cui Zollino, educatrice sessuale, sex worker e content creator, si fa portavoce sui suoi canali social. Ed è sempre da un social media, seppur decadente, come Facebook che Monica Rossi – profilo alias da anni sulla cresta dell’onda, a metà tra una Pandora scoperchiante (a ləi si deve la diffusione dei fatti legati agli abusi perpetrati dai dirigenti dell’agenzia pubblicitaria milanese We Are Social a danno di colleghe, dipendenti e stagiste) e un Narciso egoriferito – che arriva un’intervista a “Martina, la schiava sessuale”, che seppur deludente per gli standard a cui Monica Rossi ci ha abituati, stereotipata e malcelatamente giudicante, è indicativa del bisogno di far arrivare questo genere di contenuti anche agli utenti più agé. Noi millennials, nel frattempo, costruiamo la nostra consapevolezza sugli illuminanti reel di @nappiparla.