Autostrade d’autore

La fabbrica dell’imperfezione indipendente

di Francesco Lughezzani

Da qualche tempo ho iniziato a sorvegliare il sito della casa di produzione e distribuzione A24, alla ricerca di qualche nuovo gadget – mi perdonino i redattori di Filmidee: non so resistere al lato più commerciale di un cinema falsamente indipendente, ormai sdoganato in ogni possibile forma. Non pretendo di acquistare la riproduzione a grandezza naturale dello spadone che Dev Patel nei panni dell’arturiano Sir Gawain portava al fianco in The Green Knight di David Lowery. Una spilla – quella del terzo occhio che ornava il volto di Michelle Yeoh in Everything Everywhere All at Onceè decisamente più abbordabile e indossabile senza rischio di apparire in terre sospette un fan di Alberto da Giussano. 

La sponda per scrivere questo pezzo è, ça va sans dire, la cerimonia degli Academy Awards appena trascorsa, che ha visto il film dei Daniels, prodotto da A24, trionfare con sette premi – tutti i più importanti – partendo dalle undici nomination ricevute. Il film che meglio ha saputo sfruttare e parodiare l’ossessione per i multiversi che da qualche anno assedia le sale, ha incarnato con più efficacia la parabola del riscatto, distillato dalle lacrime di Ke Huy Quan: sono qui anch’io, posso farcela, possiamo farcela tutti, l’American Dream non è ancora tramontato. Come dimostrano anche le lacrime di Brendan Fraser, protagonista di The Whale, anche questo un titolo prodotto da A24. 

Ma è davvero ancora vivo questo sogno, che dalle pellicole sembra ormai passato definitivamente alle biografie attoriali? Sarebbe interessante approfondire questa mutazione dello spazio onirico collettivo, dalla celluloide ormai passato al racconto delle vite di interpreti, registi, sceneggiatori: chi il cinema lo realizza e può incarnare un sogno che non vive più nella finzione cinematografica ma nella realtà. Siamo noi. Non volendo però sfondare in altri territori, torniamo al punto di partenza.

Se di sogno si può parlare nel cinema americano contemporaneo, quello più abbagliante lo sta vivendo una piccola casa di produzione – partita come etichetta indipendente – nata per caso durante un viaggio un po’ folle tra Roma e Teramo sulla A24, fatto dai tre fondatori: David Fenkel, Daniel Katz e John Hodges.

Proprio da un’autostrada italiana prende il nome e il via una delle case di distribuzione prima e di produzione poi, che ha saputo meglio incarnare lo spirito di un’industria del cinema indipendente fino a pochi anni fa legata a doppio filo solamente al Sundance Institute e di conseguenza al Sundance FIlm Festival. Il “modello Sundance”, che prevede il sostegno a giovani autori  indipendenti nelle loro opere prime, è stato a lungo studiato come modello virtuoso, capace di portare alla ribalta registi come Paul Thomas Anderson, Quentin Tarantino, Jim Jarmusch e Steven Soderbergh. A24 ha spostato questa parabola dal mondo no-profit a quello della produzione pura, ma qualcosa nel trasloco è saltato. A saltare è stata la casualità, l’inciampo, l’errore di percorso nella nascita e sviluppo di nuove coscienze autoriali, sacrificato all’altare della produzione industriale di nuovi sguardi, sempre ben incastonati nei binari rassicuranti di un’etichetta indipendente realizzata da una strategia precisa.

Il modello che propone A24 si basa su una efficace standardizzazione del prodotto, attraverso un rigido controllo della filiera: i film della A24 sono diventati un prodotto industriale che ha canonizzato delle regole stilistiche e narrative precise, volte a definire un panorama indipendente: nulla di nuovo verrebbe da dire, that’s Hollywood dagli anni Dieci del Novecento, eppure c’è qualcosa di nuovo, inedito nel panorama d’autore. Il vero merchandising non è quello dello shop, il prodotto di serie è il film. Film d’autore prodotti da una catena di montaggio che prevede un’efficace sinergia tra sceneggiatori, registi, direttori della fotografia e direttori marketing. Film che utilizzano uno stile patinato e preciso, basandosi su palette di colori pastello applicate con rigore anche a una pluralità di generi – l’horror, o elevated horror è diventato un marchio di fabbrica A24, preferibilmente girato in pellicola – sono diventati immediatamente riconoscibili come un prodotto A24.

Sfogliando il catalogo del loro sito sembra di osservare un coerente portfolio fotografico più che un elenco di film prodotti e/o distribuiti da una casa di produzione che ha come scopo la promozione e il sostegno di registi indipendenti.

Se potessi trasformarmi in una mosca, sarei curioso di ascoltare uno scambio tra autori e produttori all’inizio del processo creativo di un film. Solo per capire chi sta ascoltando chi. E quante volte viene ripetuta la parola indipendente. O peggio, arthouse movie.