Ballando ballando
La danza goffa e vitale di Venezia 79
di Riccardo Chiaramondia
La settantanovesima Mostra del Cinema di Venezia ha segnato un parziale ritorno alla normalità dopo le due precedenti edizioni pandemiche: le misure di contenimento adottate, in linea con l’attuale situazione sanitaria, sono state allentate e le attività collaterali ripristinate. Se questo è vero a livello organizzativo, può essere utile svolgere un confronto anche tra la programmazione del Festival appena conclusosi e quello del 2021, in cui, come analizzato nel numero di febbraio 2022 di Filmese, il tema principale era stato quello di una maternità problematica, possibile metafora sofferta del Covid che, insieme al sesso, fu il grande rimosso in quasi tutti i film presentati.
La selezione di quest’anno ha rappresentato una variazione nella continuità: non sono, infatti, presenti opere che riflettano esplicitamente sulla pandemia e sugli effetti che essa ha avuto sulla società, probabilmente la ferita è stata così profonda e difficile da comprendere che, fatta esclusione per i numerosi film girati durante il lockdown, è ancora difficile razionalizzare quanto avvenuto, ma è stato profondamente diverso il modo in cui questa mancanza ha operato. L’opprimente peso luttuoso dato dalle problematiche materne è stato sostituito da un sensazione di rinascita e (ri)scoperta del mondo, talvolta gioiosa, talvolta goffa e apatica, similarmente a quanto avviene nell’adolescenza. I film di quest’anno potrebbero essere visti come i figli sopravvissuti alle madri della scorsa edizione che si preparano a entrare nel mondo adulto. I due punti su cui ruota questa riflessione sono la ricorrenza delle scene di ballo e le narrazioni anticlimatiche. Il ballo è una forma di sfogo istintuale in grado, attraverso movimenti ritmati, di liberare il corpo dai vincoli emotivi imposti: esso è, infatti, il luogo in cui anche ciò che in altri contesti apparirebbe sgraziato diventa lecito e bello.L’assenza di pensiero, sostituito dal fluire libero dell’energia cinetica, ci pone in uno stato di limbo in cui non essendo presente nulla di cosciente, si è potenzialmente pronti a ogni tipo di ripartenza e di novità, anche se queste sensazioni si rivelano spesso effimere e transitorie.
La metafora della danza come nuovo inizio è stata fatta propria da alcuni dei massimi esponenti del teatro sociale come Pippo Delbono o Vincenzo Toma. Il primo, dopo un periodo di ritiro dalle scene causato dalla scoperta della propria sieropositività, ritornò sul palco nel 1997 con Barboni, seguito l’anno successivo da Guerra: in queste due opere Delbono integrò nella compagnia attori portatori di handicap, fisico e sociale, persone emarginate dal mondo a cui era stato negato il diritto di espressione. Essi sul palco hanno trovato per la prima volta un luogo in cui sentirsi liberi e comunicare la propria individualità attraverso il corpo e i loro goffi balli pieni di vita: la loro esistenza ha in questo momento un nuovo inizio.
Delbono, che agli esordi della carriera collaborò anche con Pina Bausch, era ben consapevole dell’importanza di questa forma d’arte, tanto da metterla al centro dei suoi progetti, analogamente a quanto fece alcuni anni dopo Toma lavorando con Gli amici di Luca, una compagnia teatrale composta da persone con esiti di coma, nelle cui opere il ballo è quasi ridotto a una paradossale immobilità, ma rimane imprescindibile. Il teatro de Gli amici di Luca parte da uno scopo terapeutico-riabilitativo ed è inserito in un più ampio protocollo di cure per permettere ai sopravvissuti al coma di riprendere parte delle proprie capacità psicofisiche e ricominciare una nuova vita.
Con il mondo che dopo due anni di arresto forzato inizia a ripartire, come dimostrato anche dal parziale ritorno alla normalità delle norme festivaliere, e la necessità di sentire nuovamente il corpo con le sue spinte vitalistiche e il contatto negato con gli altri, il ballo può apparire come perfetta metafora di questo senso di rinascita.
Non sorprende allora che molti film presenti contengano scene in cui la danza è centrale, si pensi a come quasi tutta le opere selezionate per la SIC abbiano in esse il loro punto di svolta in positivo. Questi balli, però, sono spesso goffi e maldestri, come in Have You Seen This Woman?, perché la (ri)partenza, porta inevitabilmente con sé la ruggine di chi ha perso l’abitudine o l’inesperienza di chi per la prima volta si affaccia a un mondo inedito. Entrare in una nuova fase non è mai semplice e le sensazioni provate tendono a sfumare nell’apatia data dalla continua attesa di qualcosa, generando un’iniziale situazione di stasi senza un vero climax.
Questa sensazione è rappresentata in film come Blue Jean e Autobiography: alla base di entrambe le narrazioni ci sono momenti di crisi – la promulgazione da parte della Thatcher dell’omofoba sezione 28 nella prima, il rischio di una dittatura militare nella seconda – e dei personaggi che tentano di affrontarla con dubbi, rigurgiti di coscienza e dolore. Oakley e Mubarak, i registi, hanno deciso di non rendere mai il racconto enfatico o spettacolarizzare la lotta presente, ma di provare a raccontare lo stato di indecisione e sofferenza mantenendo l’emotività del proprio film sempre sotto controllo.
Questo stato di attesa, la tendenza a momenti apatici, alternati ad altri di grande felicità e la lotta con le difficoltà di un inizio, sono tutte caratteristiche tipiche dell’adolescenza e così, per mantenere la metafora dei film di questa edizione come i figli sopravvissuti della scorsa, è importante concludere citando come summa The Maiden, una riuscita opera prima in cui il regista è riuscito a rendere sullo schermo tutte quelle sensazione giovanili di cui tendiamo troppo facilmente a dimenticarci e che dovremmo, invece, conservare. Nella speranza che questi adolescenti possano crescere sereni.