
Case infestate
L’Influenza del design sulla percezione di Parasite
di Giada Valery Garcia Cedano
Molte volte noi spettatori, durante la visione di un film, ci possiamo ritrovare focalizzati più sulla trama, la recitazione, la fotografia e vengono meno i luoghi in cui si svolge il racconto. Questo però non ha un’accezione negativa, anzi, una scenografia curata rende proprio l’illusione della realtà. Spesso l’interior design degli ambienti comunica in maniera indiretta e subconscia il carattere dei personaggi, le loro passioni, paure, problematiche e status sociali. La casa d’altronde è un luogo sacro per molti, dove siamo più vulnerabili e solo i più fidati possono accedervi, perché in fondo stiamo rivelando una parte nascosta di noi e del nostro essere. Possiamo quindi riconoscere che anche l’arredamento di uno spazio può contribuire al racconto, come un vero e proprio strumento prezioso e suggestivo che si rivela agli occhi dello spettatore.
Un film che ha saputo sfruttare astutamente questa funzione comunicativa è stato sicuramente il pluripremiato Parasite di Bong Joon-ho, vincitore agli Oscar 2020, nel quale la storia e le vite di due famiglie sudcoreane agli antipodi, i Kim e i Park, si intrecciano in una lotta di classe sociale fino all’ultimo respiro.
Tra le prime sequenze vediamo la “casa-seminterrato” (o banjiha) abitata dai poveri Kim dove, tra le condizioni precarie e la sporcizia, hanno un unico affaccio al mondo esterno, popolato dalla miseria, che cercheranno di abbandonare grazie alla loro astuzia e reinventandosi con ogni mezzo. Infatti, dopo l’incontro casuale con la famiglia ricca e snob dei Park, che vive nel quartiere agiato in una villa ultramoderna ed elegante, tenteranno di scalare il divario sociale e abitativo che li separa da loro. Si insinueranno così nell’abitazione, cuore pulsante e habitat del vortice di strategie e bugie che li porterà tanto in alto quanto più in basso, trascinandoli nel peggior scenario immaginabile.
L’idea della lussuosa finta dimora dei Park, che potremmo definire “set casa-non-casa”, porta le firme dello scenografo Lee Ha-jun in collaborazione con il regista sudcoreano, i quali l’hanno scrupolosamente strutturata in 4 set per favorire le riprese e contemporaneamente accompagnare il racconto, ma sotto questo strato di lettura possiamo comprendere anche come la costruzione della casa stessa sia stata utilizzata per alimentare il carattere divisorio delle famiglie. Le scelte progettuali vertevano soprattutto a trasmettere un feeling accogliente e raffinato tra i complementi d’arredo e l’architettura, contrapponendo texture, colori e luci che regalano un mix di sensazioni tra caldi e freddi, pieni e vuoti, rigidità e morbidezza. Lo possiamo notare tra i vari impieghi del legno, che rendono l’ambiente confortevole e armonioso, in contrasto con la dura pietra grigia e nera dal design pulito, freddo, liscio e lineare, come effettivamente vuole apparire la famiglia Park; di alto livello, sofisticata e perfetta. O ancora, nell’utilizzo della luce naturale e ambrata nettamente complementare a quella artificiale e flebile dell’appartamento-buco dove vivono i Kim.

Le linee della casa sono state attentamente sfruttate nelle inquadrature per collocare e separare i personaggi ricchi da quelli poveri, mettendoli sia fisicamente che metaforicamente al “loro posto”, tenendo soprattutto in considerazione il concept del progetto stesso, ossia quello di realizzare gli ambienti in modo che ovunque ci si trovi nella casa tutti possano origliare e spiare, alimentando così tensioni e strategie distruttive.
Le scale, inoltre, sono un altro importante elemento della villa e rivestono un ruolo centrale al suo interno, sia per lo sviluppo della narrazione sia per la struttura abitativa, divisa in 4 livelli tra: primo piano, piano terra, seminterrato e… lascio a voi scoprire l’ultimo. Una prima scala parte dalla strada e conduce al piano terra, dove troviamo l’ampio salotto open-space dal design semplice e moderno, arredato in maniera essenziale, con pochi ma selezionati elementi, come il tavolino e i due divani, che vengono tuttavia enfatizzati dalle ricercate opere d’arte (tra cui quelle dello scultore e pittore Seung-mo Park, come Maya), i tagli di luce nel controsoffitto e le ampie vetrate che ricordano quelle delle celebri architetture di Mies van der Rohe, come Farnsworth House, o anche la Glass House di Philip Johnson. Se dovessimo invece ricondurre l’estetica lineare a un altro grande architetto, sarebbe sicuramente il giapponese Tadao Andō, riconosciuto per il suo stile spigoloso e austero, nel quale il gelido calcestruzzo è sempre protagonista e contrapposto alla trasparenza delle grandi aperture, che permettono alla luce di pervadere i piani e gli interni, come nella 4×4 House.
Ma ritorniamo alla nostra cinematografica dimora. Dalla zona living è possibile accedere al vasto giardino, curato, di un verde acceso, sano, che potrebbe suscitare un rimando al proverbio “l’erba del vicino è sempre più verde” e assume quasi le sembianze di un quadro, se osservato dalla prospettiva del divano. La cucina, poi, è sicuramente l’ambiente che più rispecchia il gusto del design di pregio della famiglia, con volumi curati e chiaroscuri che regalano un’atmosfera affascinante ed enigmatica, sia grazie al lungo tavolo dalla perfetta geometria, sia per il piano cottura dalla texture delicata e levigata che dona riflessi metallici. Eppure è la presenza scenografica della vetrina scura a parete a colpire di più: non solo perché custodisce preziosi cimeli di porcellana retroilluminati dalla calda luce ambrata, ma soprattutto perché sarà la chiave che rivelerà i segreti che si celano nel sottosuolo, dove tutto ha inizio e fine, come in una sorta di “uroboro (il serpente che si morde la coda) architettonico”.
Lasciamo il piano terra e raggiungiamo il piano superiore tramite un’altra scala, al centro della zona giorno e della cucina, che ospita le camere da letto dei genitori e dei due figli. In tutta la casa trovano spazio anche le creazioni artistiche del piccolo Da Song, poiché tra i molti vanti della famiglia Park vi è anche quello di avere un prodigioso bambino, futura promessa del mondo artistico. L’arte e il design circondano e accompagnano ogni stanza della villa e fanno da cornice al significato che lo stesso regista aveva inteso quando disse: «Volevo mostrare la densità crescente e soffocante che riflette la differenza di classe tra le aree elevate e quelle inferiori».
Ha reso sullo schermo questa dinamica sia sfruttando l’architettura nelle inquadrature, sia grazie all’utilizzo sapiente di oggetti e complementi d’arredo. Nel salotto, durante le scene di tensione dopo la partenza dei Park per una breve vacanza, la famiglia Kim abbandona temporaneamente la condizione di servitù per godersi la bella vita, convinta di aver trionfato nella loro gara d’ascensione. Tuttavia, il ritorno inaspettato dei Park sconvolge i loro piani, costringendo i Kim a tornare al loro ruolo sociale, sotto i Park. È l’arredamento stesso che diventa mezzo comunicativo e trasmette questa drammatica inversione di ruoli: il tavolino e il divano su cui momenti prima si rilassavano diventano un improvvisato ma rischioso nascondiglio (i genitori Park decidono di passarci l’intera notte), un simbolo di disuguaglianza che relega i Kim inferiori a loro. Come sarà ormai chiaro nulla è stato lasciato al caso, persino l’apparente semplice tavolino ha il suo perché. Non è solo un coffee table che svolge la mera funzione di appoggio, ma la sua conformazione è stata astutamente disegnata per richiamare ancora l’elemento delle scale, del “sopra e sotto” ed è grazie all’accostamento delle sue assi in legno sovrapposte che rendono impossibile accorgersi di cosa stia al di sotto, specialmente se, come i coniugi Park, si è sdraiati sul divano.

Le realizzazioni del falegname Bahk Jong-sun, designer della FuoriSalone Guide, permeano poi l’intera villa: dalle sedie, al tavolo e alle lampade. L’alto valore di queste creazioni sottolinea in maniera tangibile la disparità tra le due famiglie. Anche tra questi arredi si nasconde un fun fact, è infatti possibile notare nelle prime scene nella casa, che il grande tavolo della cucina è accompagnato da 8 sedie, una per ogni membro delle due famiglie. Nel corso degli eventi però, vengono introdotti altri due individui e, guarda caso, vengono aggiunte altre due sedie al tavolo, arrivando così a 10 personaggi, ciascuno con le proprie ambizioni e conflitti. Questi dettagli mettono ancora in luce quanto gli arredi non siano solo oggetti inanimati, ma parte integrante di un ambiente che diventa un’entità a sé stante, pronto a influenzare il corso degli eventi. Soprattutto alla fine del film, dopo che i Park hanno traslocato, vediamo una significativa svolta nei Kim, che abbandonano il loro desiderio di ricchezza e, l’abitazione spoglia di lussi e agi effimeri, diventa il simbolo del cambiamento delle loro priorità. Il desiderio iniziale di voler diventare i Park lascia spazio a qualcosa che ha più valore; ritornare a essere una famiglia, la “casa” che non ha prezzo e nessun bene materiale potrà mai comprare.
Possiamo dunque riaffermare quanto abbiamo detto inizialmente: lo studio e il progetto degli spazi in un’opera cinematografica contribuiscono alla narrazione tramite geometrie, colori, oggetti e materiali, ognuno con un potere comunicativo che si unisce alle profonde emozioni dei personaggi. È un’esperienza che lo spettatore può vivere comodamente dalla poltrona attraverso il grande schermo, osservando dettagli pronti a essere scoperti. Ed è con questa analisi che vi invito a guardare il prossimo film che sceglierete con una prospettiva diversa, una che possa incantarvi e incuriosirvi. Non è mai troppo tardi per iniziare a riflettere e osservare con occhi nuovi.