Cinema e conflitto

Il cinema e l’impossibilità dello sguardo al conflitto

di Riccardo Chiaramondia

Nel 2018 io e un amico abbiamo avvicinato per poter parlare con loro Saeed Al Batal e Ghiath Ayoub, registi di Still Recording, documentario sulla guerra civile siriana che rappresenta l’esperienza cinematografica più importante che io abbia mai avuto. Quel momento è stato un’epifania, ma lo ricordo al contempo con un certo imbarazzo: con grande ingenuità abbiamo chiesto di parlarci del finale del film quando alcuni membri della troupe sono stati colpiti da un cecchino che poco prima avevano visto, circostanza per noi difficile da comprendere fino in fondo. Perché nonostante la consapevolezza di essere sotto tiro hanno proseguito?

La risposta, data con una gentilezza e una disponibilità di cui sarò sempre grato, ci ha messo davanti a una realtà così autoevidente che ancora mi fa male non aver compreso prima: se ti dovessi nascondere ogni volta che vedi un cecchino non usciresti più di casa. Allora mi chiedo: quanto poco sappiamo di cosa realmente significhi vivere in guerra? Quanto poco siamo in grado di umanizzare le persone coinvolte, togliendole dalla bidimensionalità a cui sono costrette dalle narrazioni mediali? Per quanto mi sforzi di astrarre il più possibile il mio pensiero e di comprendere, le mie possibilità di conoscere in profondità sono limitate e non vorrei utilizzare le mie parole per arrogarmi un diritto che non ho. Vorrei avere la forza di un Kapuściński e vivere in presa diretta quelle esperienze non con intento voyeuristico, ma con la speranza di poter essere d’aiuto per qualcuno con la testimonianza: quel coraggio però non ce l’ho e forse – probabilmente – non lo avrò mai. Cosa mi rimane allora? Cosa ho a disposizione? Visto che sto scrivendo qua la risposta è facile da immaginare: il cinema. Dopo Still Recording la mia attenzione verso documentari testimoniali di chi quotidianamente vive queste realtà è aumentata notevolmente e ogni qualvolta ne ho la possibilità cerco di recuperarne. L’intenzione di questo pezzo non è, quindi, quello di addentrarmi in una riflessione politica, sebbene credo che le mie posizioni non siano difficili da intuire, bensì quello di presentare attraverso tre documentari il lato umano della guerra. La prima opera è inevitabilmente Still Recording.

I due registi hanno vissuto in prima persona il fronte, non come soldati ma come testimoni partecipanti e attivisti, e partendo dalle 450 ore di girato a loro disposizione hanno realizzato una sintesi di poco inferiore ai 120 minuti. In questa pellicola l’umanizzazione dei combattenti è un punto fondamentale: vengono mostrate le licenze, le feste per i compleanni di amici e quella necessaria quotidianità che esternamente pensiamo essere inesistente. Il momento che, però, più di ogni altro simboleggia l’umanità di questo film è la ripresa della comunicazione tra i radio operatori dei due fronti opposti: qua dei ragazzi si confrontano facendo emergere le loro paure, l’insensatezza del conflitto e un’inaspettata fratellanza bruscamente interrotta dall’affiorare delle ideologie. Il ripudio della guerra in Still Recording non passa dagli orrori dei campi di battaglia, spesso volutamente tagliati nel montaggio, ma dai volti di chi vi partecipa.

Hollywoodgate, presentato all’ultimo Festival di Venezia, invece, può essere visto come il controcanto negativo dell’opera di Al Batal e Ayoub: a essere centrale è ancora l’essere umano, ma se in Still Recording a essere indagata è la quotidianità di alcuni ragazzi buttati in pasto alla morte e mai pienamente consapevoli o colpevoli, qua, invece, a essere rappresentato è il volto del male. Il giorno dopo il ritiro delle truppe statunitensi dall’Afghanistan Ibrahim Nash’at ha ricevuto il permesso del regime talebano di filmarli per un anno intero a patto che egli riprendesse solamente ciò che loro volevano. Il documentario realizzato da Nash’at sfrutta intelligentemente la volontà propagandistica del nuovo governo afgano per mostrare l’assurdità della violenza alla sua base e per demitizzare i suoi componenti. Persone comuni, così come i ragazzi di Still Recording, che conducono esistenze comuni sfruttando, però, i propri poteri per finalità oppressive. Dare dei volti e una quotidianità è importante, aiuta a demitizzare un’organizzazione che per la sua potenza e per la narrazione che ne viene normalmente fatta ci appare quasi immaterica e inattaccabile, un mostro che ineluttabilmente divorerà ciò che lo circonda: le paure informi sono quasi imbattibili, gli esseri umani, invece, sono fallibili. Il culmine di Hollywoodgate si ha con la telefonata finale dove uno dei capi dell’esercito chiama il ministro degli interni del Tagikistan e, velatamente, dichiara lui guerra. Una dichiarazione di guerra altro non è che una semplice chiamata, ancora una volta un’umana banalità. Infine, un document(ari)o di grande importanza è Im tekhayekh, ha’Olam yekhayekh elekha di Ehab Tarabieh, Yoav Gross e della famiglia al-Haddad: alla popolazione palestinese è permesso di riprendere le perquisizioni domestiche dell’esercito israeliano e nel 2014 la famiglia al-Haddad ha prodotto questo filmato. Gli abusi dei soldati solitamente sono raccontati a parole, ma raramente mostrati, sono un non visto che poche volte, come fatto da De Palma con la docufiction Redacted, si prova a esplicitare e che invece sarebbe necessario sdoganare: sapere che esistono e vedere in cosa realmente consistono è profondamente diverso. La famiglia al-Haddad riprende i soldati, ma anche i propri volti: a essere protagoniste non sono delle generiche e informi violenze, ma delle persone comuni, degli esseri umani che le perpetrano o che le subiscono. Narrazioni come queste sono necessarie per farci comprendere meglio, per umanizzare le persone deumanizzate dalla guerra, sperando di toccare coscienze e risvegliare una solidarietà che oggi è ancora lontana. Questo da solo non cambierebbe le sorti, ma come piccolo ingranaggio in una macchina più grande può contribuire. Bisogna rimettere l’umanità al centro.