DeLillo’s movie magic

Rumore bianco e colori al neon

di Michele Cannas

White Noise è un film del 2022, diretto e sceneggiato da Noah Baumbach e basato sull’omonimo romanzo di Don DeLillo, pubblicato nel 1985. Un libro che, come spesso accade quando si parla di trasposizioni filmiche, presenta la domanda intrinseca: è un film che rende giustizia al suo antenato letterario? In un cittadina fittizia del Midwest americano, a metà anni ’80, Jack Gladney è un docente universitario di studi Hitleriani, padre di una famiglia composta dalla moglie Babette e i loro figli da matrimoni precedenti. Tutti loro cercano di affrontare i loro problemi personali e le loro ossessioni in un mondo caratterizzato dalla cultura dei consumi, dalla paura della morte e da un senso generale di estraneità. Un evento in particolare segna il corso della storia, suscitando nei protagonisti reazioni a catena inaspettate. Sebbene il romanzo parta stilisticamente uniforme, la complessità della trama lo rende un miscuglio di temi, stili, intrecci e storie.

La costante e pervasiva sensazione di sentire un rumore di fondo, un’assillante nenia prodotta dalla presenza delle macchine, degli oggetti elettronici, dei computer, dei supermercati, delle informazioni eterne, delle luci al neon, dei flash, delle onde radio, è un fattore centrale nel libro, ma viene perso nel film: noi, a quel “rumore bianco” ci siamo abituati fin dalla nascita. Quel bombardamento mediatico e radiotelevisivo, che poteva apparire così straniante e rumoroso negli anni Ottanta, non è altro che ciò a cui siamo assuefatti da tempo.

La differenza che intercorre tra Jack, sua moglie Babette, l’amico docente Murray (e tutti gli altri loro coetanei) e i loro figli, la generazione che oggi chiamiamo millennial, è proprio questa: la sordità nei confronti di questo suono perenne, ma che stava iniziando solo allora ad essere percepibile.

DeLillo è riuscito ad immaginare (e ascoltare) ciò che in quel momento era impossibile da udire, quello che solo dopo quaranta anni sarebbe stato veramente inudibile, ma riconosciuto come assordante. La paura della morte è così forte e pervasiva, in Jack e Babette, che i rischi di ingoiare una pillola non testata, che aiuterebbe ad eliminare questa fobia, ma che potrebbe provocare la morte, vengono assunti senza pensarci due volte. La morte appare come una minaccia così prossima, che allontanarla con il Dylar non fa altro che avvicinarla ancora di più: un circolo vizioso che non ha via di uscita se non quella di accettare l’eventualità della fine, il rendersi conto che vivere con questa paura rende già conclusa l’esperienza della vita.

Nella sceneggiatura di Baumbach sono stati fatti tanti piccoli cambiamenti al testo, partendo da alcune scene che sono state traslate nella linea temporale della trama, e finendo (come il medium cinematografico spesso impone) con la cancellazione di alcuni personaggi e scene.

Adam Driver riveste il ruolo di Jack Gladney, il protagonista del libro. Il suo è un personaggio ricco di sfaccettature spesso incoerenti tra di loro, che l’attore californiano interpreta in modo fedele alla scrittura di DeLillo, anche se questo talvolta appare in contrasto con la natura più irriverente del film. Se nel testo Jack è un uomo che appare allo stesso tempo distaccato e profondamente legato a tutto ciò che lo circonda, apatico, ma incredibilmente emotivo, nel film assume la forma di padre di famiglia da sitcom, cui capitano delle disavventure alle quali presta poca attenzione. La domanda non è, quindi, se Driver abbia fatto bene o meno il suo lavoro, ma se il personaggio scritto per lo schermo renda giustizia a quello scaturito dalla penna di DeLillo.

L’uso dei colori nella fotografia di White Noise gioca un ruolo molto particolare. L’iniziale iper-saturazione – creata anche dall’immaginario degli anni ‘80 – presente nel primo capitolo del film, viene spenta dal buio del secondo, in cui l’evento tossico aereo entra a far parte della vita dei protagonisti. Nella terza e ultima parte del film, “Dylarama”, i colori sono quasi tutti sfumature di verde petrolio, rosso neon e nero, per poi ritornare alla prima pienezza cromatica sul finale. Tra i vari espedienti narrativi escogitati da Baumbach, questo sembra essere quello che più consapevole del testo originale di De Lillo, nonostante le atmosfere raccontate da quest’ultimo rimandino quasi tutte al grigio e ai suoi derivati. Un modo intelligente di trasformare le parole in immagini.

Come tante altre pellicole ispirate a libri, anche questa cela dei limiti che si evidenziano solo a chi il libro l’ha letto. E nella sensazione di aver tanto da dire, ma non riuscire completamente a farlo, questo film prova a rendere visibile ciò che DeLillo scrisse del 1984, senza però mai centrare quello che nel libro è già completamente osservabile e concreto.

Se la domanda che ci si poneva all’inizio era “White Noise è un film che rende giustizia al libro?”, dopo la visione della pellicola sembra che sia più corretto chiedersi: “Possono tutti i libri essere trasformati in film?” In questo caso particolare, forse, è necessario accettare l’insuperabile supremazia dell’uno rispetto all’altro, senza nulla togliere alla riscoperta su grande schermo un classico della letteratura postmoderna americana.