
Don’t be yourself, please
Un pianeta chiamato Discovery
di Marika Zandanel
Ce l’hanno detto in tutti modi, in tutte le lingue. Che sia importante il viaggio e non la meta ce lo dice ogni bacio perugina, un bel po’ di musica, a volte ci si mette anche il cinema. Non importa se stia nei salotti della televisione per un’intervista o sia il senso di un’opera letteraria: tutto quello che ho fatto mi ha reso la persona che sono ora, in fondo, diventa una banalità accettabile perché chi ce lo fa fare di buttare tutta la strada fatta?
Quello che non ci dice nessuno (o quasi) è che questa strada è meglio se la facciamo senza essere noi stessi.
Meno male c’è la musica elettronica, che esiste per essere prodotta in contesti dove il volto è un vedo-non vedo di luci a intermittenza e a malapena riconosci chi balla accanto a te. Meno male ci sono stati i Daft Punk a calpestare l’ipocrisia di un be yourself per tutta la vita, a cancellarsi il volto e a raccontare al mondo di essere diventati dei robot in un momento ben preciso della loro carriera.
I primi robot compaiono nel video di Around The World, traccia dell’album Homework (1997) con cui i ragazzi francesi esordiscono. Se il nome d’arte del duo è il furbo risultato di una recensione negativa, la costruzione della loro immagine stringe col diavolo un patto ancora più stretto di quanto qualsiasi artista possa fare consegnando al mondo la sua opera e diventando immortale. Prima semplici maschere per distinguersi da tutti, poi i caschi spaziali che li consacreranno per ventotto anni e che non lasceranno carpire i segni del tempo su di loro, garantendo anonimato e doppia vita: da una parte robot d’oro e robot d’argento; dall’altra Guy-Manuel de Homem-Christo e Thomas Bangalter liberi di andare in metro e chiacchierare nei pub, nonostante la fama.
Eterni ragazzini aristocratici (perché, si sa, fare elettronica era roba da ricchi col computer) che su questa aristocrazia un po’ ci hanno sputato (ma solo un po’, perché, si sa, se hai qualche spicciolo in più a fine anni Novanta ti puoi permettere di rischiare con le scelte artistiche).
Non era solo strategia di immagine e marketing, quel travestimento non significava solo l’affermazione di un nuovo modo di intendere quella musica, ma era anche e soprattutto la negazione dei loro volti al tritacarne del successo.
I Daft Punk non hanno bisogno di consegnarci le parole vuote di un’intervista TV per dirci che il viaggio conta. Basta dirlo con la musica del futuro, racchiusa in un unico album e l’album in questione è Discovery (2001).
Siamo su un pianeta pieno di esseri dalla pelle blu. No, non è Pandora e, sì, mi piace pensare che James Cameron, creando il suo Avatar, sia rimasto folgorato dal film Interstella 5555 (2003) a cui dà vita, per il secondo album del duo francese, il fumettista e animatore Leiji Matsumoto, scomparso lo scorso febbraio. Il padre di Capitan Harlock e i robot si incontrano così e si capiscono per l’abilità con cui sanno abitare bene lo spazio (inteso come universo di pianeti): il primo facendo del suo manga iconico un’odissea fantascientifica per un pirata che, reietto sulla terra, è qualcuno solo quando non è se stesso, vagando fra le stelle; i secondi piegando la musica anni Settanta al synth e alla loro estetica beyond life.
Nell’arco di una lunga carriera, le collaborazioni con altri artisti sono molteplici e si fanno ancora più intime se si tratta del matrimonio fra musica e immagine. Sicuramente il video di Da Funk girato da Spike Jonze, il già citato Around the World di Michel Gondry e la colonna sonora di Tron: Legacy (2010), ma è in assoluto il lungometraggio di Matsumoto a vincere la prova del tempo.
Siamo su un pianeta di esseri blu, dicevamo. Nessuna voce, solo l’intero album Discovery dalla prima traccia all’ultima in cui i protagonisti, una band tutta blu che canta felice One More Time, vengono rapiti da un cattivo (bianco!) che viene dalla Terra per fare di loro una band di successo sul nostro pianeta. C’è, in questa breve sinossi, l’essenza dei Daft Punk padroni di sé contro un sistema che ti vorrebbe conosciuto (ma abusato); c’è, nell’animazione, l’urgenza di Matsumoto di dirci che la tecnologia è più naturale di quanto si possa pensare ed è più umana degli umani, almeno finché non sono loro ad utilizzarla.
Più si va avanti con Interstella 5555, più si ha voglia di essere quello che non si è, di essere qualcosa che forse può sembrare falso perché è solo nell’immaginazione, ma almeno sembra migliore, come quegli esseri blu. Lo vogliono anche i Daft Punk, che sono e non sono al tempo stesso quella band di successo di cui seguiamo le peripezie.
E allora sì, con le immagini Discovery diventa un viaggio, una scoperta, ma in un universo in cui si può essere tutt’altro e questa intuizione i due francesini l’hanno avuta al momento giusto. Cambiarsi i vestiti non basta, per essere qualcuno bisogna in qualche modo non essere e innestarsi in quella che ci pare l’evoluzione più efficace.
Due anni fa i Daft Punk si sciolgono, i robot decidono di non essere più loro, di nuovo. No, miei cari voyeurs, se volete che si tolgano il casco dovete andare fra gli scatti rubati di qualche paparazzo o nei salotti TV. Se ne vanno pubblicando un video sui loro canali social, senza musica e dissolvendo la loro immagine, chissà dove.