Dove non possiamo stare

How to disappear completely

di Chiara Zuccari

 

I luoghi riconoscibili. Trovare un punto anonimo in cui mimetizzarsi. Rimanere nascosti, silenziosi, latenti. In attesa. Procedere per automatismi, annullare ogni guizzo creativo, seguire pedissequamente il protocollo. L’attenzione ai futili dettagli che annullano il desiderio in nome di una mediocre funzionalità.

Scrivo queste righe mentre mi trovo sul treno che da Verona mi sta portando a Roma. Il treno, tra i più emblematici non-luoghi della nostra quotidianità. Anonimo, se non addirittura senza identità, che tutti i luoghi attraversa ma a nessun luogo appartiene. Terra di mezzo, spazio sospeso, in cui tutto procede verso un’unica, incontrovertibile e sicura direzione. E, al contempo, il tempo sembra fermarsi.

Cosa succederebbe se scendessi a Firenze, invece che arrivare alla destinazione finale e prevista? Se scegliessi un altro suolo su cui poggiare i piedi, totalmente slegato dalla mia vita, dalla mia identità, dalla casa in cui abito, dal lavoro che faccio, dalla città in cui vivo? E quanto a lungo potrei rimanere su quel terreno nuovo, che potenzialmente avrebbe da offrirmi incalcolabili altre possibilità, alternative, novità? Nel 1904 Pirandello scriveva Il fu Mattia Pascal. Nel 1938 Ettore Majorana, fisico del gruppo di via Panisperna, faceva perdere le sue tracce: «Caro Carrelli, ho preso una decisione che era ormai inevitabile. Non vi è in essa un solo granello di egoismo, ma mi rendo conto delle noie che la mia improvvisa scomparsa potrà procurare a te e agli studenti. Anche per questo ti prego di perdonarmi, ma soprattutto per aver deluso tutta la fiducia, la sincera amicizia e la simpatia che mi hai dimostrato in questi mesi», scriveva così poco prima di imbarcarsi da Napoli su un piroscafo che lo avrebbe portato a Palermo. Un altro mezzo di trasporto. Un altro non-luogo su cui trasformarsi in altro da sé, da cui disperdere in mare la propria identità.

Ettore Majorana, Mattia Pascal e innumerevoli altri e altre, un giorno x della loro vita hanno deciso di non esistere più, pur rimanendo in vita. Così come Aldo, protagonista invisibile del film Dove sono stato, che s’incarna nella voce di Corso Salani, mentre racconta gli spostamenti dell’uomo scomparso e di cui Mauro Santini recupera le registrazioni nel cortometraggio Dove non siamo stati, dedicato alla memoria di Corso. Il racconto di una presenza che ha lasciato il posto al vuoto di un corpo assente, di un affetto dissolto da una vita dalla fine ineluttabile, eppure imprevedibile e per questo sconvolgente; di cui resta solamente una voce limpida e inconfondibile a reggere l’altare del ricordo, nell’attesa, a tratti piena di speranza, talvolta invece rassegnata, ma sempre straziante, che insieme alle parole si possa manifestare ancora una volta il corpo che le pronuncia.

«Una massa informe, maleodorante, di gente che si rivendica, che fieramente è, si nutre, cresce e abbonda, si allarga nello spazio e nel tempo con personalistico guadagno e littorio sdegno». Così scrive Bebo Guidetti in un raccontino offerto al fuggevole scroll della timeline di Facebook, dal titolo inequivocabile, Scomparire. Sì, ma da dove? Da cosa? E per ritrovarsi dove? A fare cosa?

Basta allontanarsi per un po’. Basta davvero allontanarsi per un po’? Inventare una capsula del tempo. Rifugiarsi nei luoghi di comfort, tra braccia accoglienti, in famiglia. Ma succede più in fretta di quel che si crede che quei brevi ritorni si trasformino in rassicuranti quanto vischiose ragnatele. E se tornare significasse andarsene? E se andarsene significasse non voler tornare più? Che siano Nîmes, Annecy, Lisbona. Roma, Verona, Lecce. Che sia la casa di famiglia o un appartamento al Pigneto, una stanza, una terrazza, un cinema. Un luogo di lavoro. Bruxelles o Austin. Luoghi da cui andarsene o a cui fare ritorno. Luoghi da cui ripartire. Terre di radici o di sradicamenti. Città in cui è ancora possibile immaginare, vagheggiare, inventare una nuova vita, nuovi desideri, su cui proiettare idee vergini e disegni lasciati a metà. Luoghi in cui siamo stati o non siamo stati mai. A volte, per alcuni, luoghi in cui non possiamo stare più. Dove non si può vivere né lavorare, tanto ci hanno consumati, asfissiati, incattiviti, prosciugati. Luoghi in cui nulla sembra essere lì per noi. Luoghi che ci rifiutano, come il mare ha rifiutato Majorana.

Che l’assenza, la scomparsa, la dissolvenza improvvisa o annunciata, sia l’unica risposta possibile, dunque? Forse. Per ora mi ritaglio il mio spazio salvifico, la mia capsula temporale, non a caso su un treno, il cui procedere svelto sembra per assurdo fermare ogni cosa. Forse c’entra il primo principio della dinamica, non ricordo esattamente. Di certo tra i sedili ho trovato per una manciata d’ore il mio stato di quiete. Non c’è più tempo, bisogna affrettarsi. Stiamo per arrivare in stazione.