E venne l’Apocalisse

Servant e gli altri: il cinema di M. Night Shyamalan

di Chiara Zuccari

Si è da poco conclusa la quarta – e presumibilmente ultima –stagione di Servant, la serie thriller-horror targata Apple TV+, che aveva battezzato la neonata piattaforma streaming nel 2019, co-diretta da M. Night Shyamalan, anche produttore esecutivo, e scritta da Tony Basgallop. Dopo aver chiuso la sua trilogia supereroistica con Glass, uscito lo stesso anno, iniziata nel 2000 con Unbreakable e proseguita nel 2016 con Split, il regista è tornato alla serialità, dopo una prima esperienza tentata tra il 2015 e il 2016 con Wayward Pines.

Con Servant Shyamalan alza ancora di più l’asticella e progetta una serie dalle smisurate possibilità di sviluppo, in termini di temi, generi e colpi di scena, ancora più enigmatica e imprevedibile, un vero e proprio compendio del suo cinema, che racchiude tutte le ossessioni e gli stilemi tipici della poetica del cineasta. La trama è apparentemente semplice: Dorothy e Sean Turner sono una coppia, lei reporter televisiva, lui food blogger, che ha da poco perso il neonato figlio Jericho. Per permettere alla moglie di superare il trauma, Sean, insieme al fratello di lei Julian (un Rupert Grint riuscito a emanciparsi dal ruolo del rosso compagno di avventure di Harry Potter e ormai diventato feticcio di Shyamalan – lo troviamo infatti anche nell’ultimo Bussano alla porta), le procurano una reborn doll, una bambola di silicone che assomiglia in tutto e per tutto a un bambino reale. Per prendersene cura assumono una giovane e misteriosa babysitter, Leanne. Appena la ragazza mette piede in casa, cominciano a verificarsi episodi inspiegabili e inquietanti, al limite del sovrannaturale.

Inizia come un dramma da camera, Servant, ambientato per la maggior parte all’interno della casa dei Turner, le cui mura e stanze si allargano e restringono a seconda delle angolazioni, il televisore come unica apertura sul mondo esterno (elemento che ritornerà anche in Bussano alla porta), inquadrature in fish-eye, baby monitor e videocamere, che alterano lo sguardo, la percezione e quindi – forse – anche la realtà. In apparenza un thriller disseminato di indizi che sembrano indispensabili a ricostruire il mistero. Ma ben presto ci si rende conto che è solo un pretesto, e la serie di episodio in episodio, stagione dopo stagione, cambia veste e genere, e ciò che prima sembrava centrale diventa inspiegabilmente e magicamente secondario, se non addirittura superfluo. E, come dovremmo aver ormai imparato dal cinema di questo regista che svicola da qualsiasi classificazione, l’episodio finale della prima stagione è ciò da cui tutto ha inizio, svelando finalmente la vera natura fantastica di questa sua nuova creatura seriale, fatta di magia, superpoteri, allegorie, predestinazione e apocalissi (tra assedi di tarme e cimici che sembrano novelle piaghe d’Egitto e tempeste che rimandano al diluvio universale).

Tra identità fittizie, fake news, dispositivi di controllo a distanza, video sorveglianza, realtà apparente, in ogni suo progetto Shyamalan parte sempre dal dato reale per costruire la propria riflessione teorica, abbandonandolo però ben presto, almeno narrativamente parlando, in nome della più pura e personale libertà espressiva. Viene da chiedersi per tutto il tempo chi ci sia dietro ai monitor, alle telecamere di sicurezza, chi stia vedendo o ascoltando le registrazioni. Shyamalan, e noi con lui, osserva i suoi personaggi ripresi in stranianti primissimi piani, dietro una lente deformante (ruolo, quello del sorvegliante, che si ritaglia anche in Old, occhio onnisciente che vede attraverso la multimedialità e la proliferazione degli schermi). Ma per loro, gli osservati, sapere cosa c’è fuori è impossibile. Il fuoricampo è proibito, insondabile, inaccessibile, se non attraverso medium che facciano da intermediari (come un televisore), capaci però di veicolare verità fasulle. Impenetrabile così come lo spazio esterno, da cui siamo stati convinti di doverci difendere, in nome di una sicurezza per la quale siamo disposti a rinunciare al diritto alla privacy, a scendere a compromessi con l’ipotesi di essere costantemente sorvegliati.

Proprio l’esterno invece è dove forse risiede l’unica salvezza possibile, l’unica vera forma di liberazione. Ancora una volta è una lotta per la sopravvivenza e Shyamalan ci ripropone la stessa domanda: chi sono i veri cattivi? Forse gli interrogativi a cui alla fine dobbiamo rispondere sono ben più di questo. E certamente al regista piace giocare sull’ambiguità e gli arcani irrisolti, i dubbi, le incertezze, le risoluzioni che non sono mai definitive e univoche. Shyamalan attraversa il panorama che lo precede raccogliendo suggestioni e condensandole in un prodotto che per certi aspetti si discosta dalla struttura seriale a cui siamo abituati. Il suo sguardo s’insinua nelle pieghe del racconto codificato, si ferma contemplativo, in infiniti attimi, sul primo piano dei suoi protagonisti, rendendoli inusitatamente fragili e mettendo in abisso ogni statuto eroico, perché sempre consapevole di un pressante fuoricampo.

E allora la lotta con il Male si basa tutta, ancora una volta, sul superamento della paura, della paranoia, dell’allucinazione, del bisogno di controllo costante eppure falsato, della necessità di comprensione di una realtà definitivamente senza senso.