IL CASO ULTIMO TANGO

Cinquant’anni di scandali

di Lorenzo Reggiani

Salutato, dopo la prima newyorchese, come “una pietra miliare nella storia del cinema”, e subito dopo l’uscita italiana sequestrato e condannato al rogo per oscenità. Cinquant’anni fa iniziava l’odissea di Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci, ma l’anniversario è stato ricordato sottovoce. Dopo l’assoluzione e il ritorno sugli schermi, il film è incappato più di recente in scomuniche di tutt’altro segno, ma che ne hanno perpetuato la maledizione.

A riaccendere le polveri la protagonista Maria Schneider, che in una intervista rilasciata nel 2007 per il trentacinquesimo anniversario del film denunciava la “nefanda” scena della sodomia come uno stupro. Stupro psicologico – sul set la violenza fu ovviamente simulata – ma poco importa, perché negli anni a seguire tutto è entrato in circolo con la rete e, alimentato dalla temperie del me too, si è gonfiato, imprimendo su Ultimo tango un nuovo marchio di Caino. Stigma che perdura, e che forse spiega questo cinquantenario in sordina

Più che ricordare il primo sequestro il 31 dicembre 1972 e la condanna definitiva in Cassazione del 29 gennaio 1976 in cui Bertolucci fu privato dei diritti civili, forse bisognerebbe ricordare la sentenza del Tribunale di Roma che il 9 febbraio 1987 dichiara la pellicola non oscena e può essere rimessa in circolazione. Ma non senza che si rinfocolassero le polemiche riaperte in merito alla famosa “scena del burro”, a proposito della quale nel 2016 Bertolucci dichiara: “E’ consolante e desolante che qualcuno sia ancora così naif da credere che al cinema accada per davvero quello che si vede sullo schermo”.

Il 21 maggio 2018 il film è tornato nelle sale italiane nella versione restaurata dalla Cineteca Nazionale del Centro Sperimentale di Cinematografia con la supervisione di Vittorio Storaro, che ne era stato il direttore della fotografia.

Rivedendolo oggi sul grande schermo, ci si può chiedere: Ultimo tango è invecchiato bene? Paolo Mereghetti nel suo Dizionario sostiene che il film è “ancora capace di parlarci della solitudine e della distanza tra i sessi nella nostra società: certo molte cose sono superflue e anche “false”, ma la strana, infernale plasticità di Brando, la luce pastosa di Vittorio Storaro e la musicale mobilità della macchina da presa di Bertolucci ne fanno un’opera indimenticabile. Un classico la colonna sonora di Gato Barbieri”.

Il regista Marco Tullio Giordana, che grazie a quel film scelse di fare cinema, risponde invece: “Non si può valutare con le unità di misura oggi invalse, non si può capire senza ricordare che la libertà sessuale promessa dal ’68 è stata poi mortificata oltre che dai suoi nemici naturali – la religione, la politica, il senso comune – dall’Aids e dal suo corollario di sofferenze e di paure. La società non cresce tutta insieme, soprattutto non dovunque nello stesso modo. Anche i personaggi, sempre che il film voglia raccontare la vita e non trascrivere il decalogo dei comportamenti ammessi, risentono del loro tempo, della loro storia personale, in poche parole della cultura in cui si sono formati. Ultimo tango esprime alla perfezione l’air du temps e le sue istanze libertine, i fantasmi e le illusioni che forse oggi risultano datate. Ma guai pretendere che un film si rifaccia il lifting per adeguarsi alle mode del momento”.

Ultimo tango non è un film perfetto, ma in compenso è vitale. Se le fonti, non solo cinematografiche ma letterarie e culturali in genere, si sparpagliano in direzioni diverse e non sempre armoniose, l’importante  è che il tema centrale resiste e rimane limpido: il rapporto impossibile, imperniato su sperperi sadomasochistici, tra l’uomo maturo e la ragazza, ossia tra due generazioni inconciliabili.

E forse non è solo scelta artistica, ma anche calcolo il ricorso ad un attore di richiamo come Marlon Brando – lasciato poi a gigioneggiare, come da tempo gli succedeva, in un personaggio che, per riuscire attendibile, doveva proprio rifiutare la gigioneria – e ad una disponibilissima Maria Schneider che ha peraltro la fortuna, lei attrice immatura, di doversi calare in un personaggio immaturo.

Nell’ambiguità sia di quanto propone, sia delle reazioni di critica e di pubblico che ha suscitato cinquant’anni fa, Ultimo tango sembra insomma costituire non tanto un caso artistico, quanto di costume.