
Il nuovo risorgimento
Da Jeeg Robot a Dampyr, il cinema di genere italiano è tornato. Ma durerà?
di Marco Triolo
L’anno è il 2015. Tra i giornalisti presenti alla Festa del Cinema di Roma si sparge una voce: «Ma lo sai che quel Lo chiamavano Jeeg Robot non è per niente male?». Chi aveva snobbato la proiezione stampa, certo che un film di supereroi italiano non potesse che essere quella che in gergo tecnico si definisce “una ciofeca” (cit. André Bazin), accorre con gli occhi gonfi di speranza a quella successiva, aperta al pubblico. E assiste a qualcosa di inaspettato e insperato: un film. Un film vero, fatto bene, con la consapevolezza dei propri mezzi e la volontà di declinare un genere molto americano in un contesto italiano, senza che ciò diventi una limitazione (o imitazione), ma trasformando l’italianità in un valore aggiunto.
Lo chiamavano Jeeg Robot, opera prima di Gabriele Mainetti, uno che fino a quel momento aveva già dato grandi soddisfazioni in ambito corti (vedere il suo Basette, uno dei migliori adattamenti di Lupin III di sempre), è quello che in gergo tecnico si definisce “uno spartiacque”. L’opera che segna un deciso passo avanti nella rinascita del genere in Italia, anzi addirittura l’opera che “scollina”, un punto di non ritorno: da quel momento, sarebbe stato impossibile fare film di genere sciatti o tirati via senza incappare nell’onnipresente paragone con il film di Mainetti.
In realtà, a guardare bene, il risorgimento del genere italiano era iniziato qualche anno prima sul piccolo schermo, grazie agli sforzi di un altro autore fondamentale come Stefano Sollima. Figlio di quel Sergio Sollima che ci ha regalato alcuni dei capitoli più riusciti del western e dell’action all’italiana, Stefano è oggi uno dei pochi registi italiani a lavorare regolarmente all’estero. La sua mano, molto internazionale, era già evidentissima nella serie Romanzo criminale, ancora una volta uno spartiacque: uscita nel 2008, un’epoca ancora dominata dalle fiction à la Gli occhi del cuore, la serie tratta dal romanzo di Giancarlo De Cataldo, a sua volta ispirato alla storia della Banda della Magliana, è brutale e lirica, sa gestire i registri in maniera “moderna” e, soprattutto, non si nasconde dietro a un dito e si presenta per quello che è: exploitation fatta benissimo. Più avanti, Sollima avrebbe bissato con Gomorra – La serie, proseguita per cinque stagioni tra gli elogi della critica. Sollima porta avanti il suo percorso al cinema, prima con A.C.A.B. e poi con Suburra, che a sua volta genera una serie Netflix (in cui lui non è coinvolto). Suburra è un altro tassello in un percorso sempre più alla luce del sole: c’è una generazione di registi che non si piega alle regole del cinema italiano contemporaneo, ma vuole infrangerle e raccontare storie diverse con il linguaggio del genere.
Tra questi c’è un nome che, negli ultimi anni, si è distinto per non essere solo regista ma anche produttore: Matteo Rovere. Autore di Veloce come il vento (in cui regala a Stefano Accorsi il ruolo della vita) e Il primo re, ma anche del suo figlioccio televisivo Romulus, con la sua Groenlandia Srl, Rovere sta dando ad altri autori spazio per crescere. Groenlandia ha prodotto, tra gli altri, la trilogia di Smetto quando voglio di Sydney Sibilia (socio di Rovere), esempio abbastanza riuscito di action-comedy all’italiana. Ma anche L’incredibile storia dell’Isola delle Rose e l’action La belva, entrambi per Netflix, il post-apocalittico Mondocane e The Hanging Sun, dal romanzo di Jo Nesbø. Il loro mantra? «Fare film e serie che noi stessi vorremmo vedere come spettatori».

Non è tutto rose e fiori, purtroppo. Se da un punto di vista produttivo stiamo andando nella direzione giusta, il responso del pubblico è ancora tiepido. Lo chiamavano Jeeg Robot è stato un successo, ma già il film successivo di Mainetti, l’ambizioso e mirabolante Freaks Out, non ha fatto breccia (complice anche il Covid, va detto). Lo stesso vale per un film trainato da un marchio decisamente più noto come Diabolik (dei Manetti Bros., pionieri del genere in Italia), di cui da poco è uscito il sequel solo perché era già in lavorazione all’epoca del flop del primo. Di recente, un altro esperimento interessante come Dampyr, primo film del Bonelli Cinematic Universe, investimento importante (15 milioni di euro) e opera ambiziosa girata in lingua inglese, è passato praticamente sotto silenzio.

Dampyr dimostra, ancora una volta, che ormai siamo in grado di produrre film di genere che tecnicamente non hanno nulla da invidiare ai loro omologhi internazionali. Il problema, dunque, non è la qualità dei film, quanto piuttosto il fatto che i distributori non riescano a venderli, non sappiano creare l’evento intorno a un’uscita, come si fa in America. E, sì, una certa resistenza da parte del pubblico italiano a fidarsi di un prodotto action/horror/fantastico prodotto in Italia. Finché questa distanza tra produttori e consumatori non verrà colmata, correremo il rischio di veder naufragare questo risorgimento prima che possa diventare consuetudine. E sarebbe un vero peccato.