Il signore delle immagini
Caleidoscopiche masturbazioni di un genio
di Lorenzo Reggiani
A Santa Maria degli Angeli, la chiesa di Roma da sempre deputata a ospitare esequie di re, eroi, grandi caduti, statisti e intellettuali, il cardinale Achille Silvestrini, davanti al feretro di Federico Fellini, lo definisce “il signore delle immagini” e poi rivolgendosi alla folla raccolta in piazza Esedra: “È la poesia che penetra il cuore della gente. Occorre interrogare i poeti, ascoltarli con devozione e amarli per conoscere quello che il mondo patisce”. Lui, Fellini, ha patito il suo calvario, concluso a Roma il 31 ottobre 1993. Trent’anni fa. E forse adesso quelle parole del cardinale Silvestrini ci sembrano davvero le più giuste per ricordare il massimo genio italiano del cinema. Forse era consapevole di esserlo, ma lo teneva per sé. Consapevole di essere un regista che ha rivoluzionato il modo di far cinema, che è diventato un aggettivo e un sinonimo di qualità italiana nel mondo; di essere l’artista di Otto e mezzo, film che ha portato al massimo livello espressivo i mezzi artistici del cinema; di essere colui che divise l’Italia in due a parlare della Dolce vita (non si può credere cosa fu l’uscita di quella pellicola).
A proposito di Otto e mezzo, ricorrono i sessant’anni del film che racconta un film che non riesce a fare, come Proust nella Recherche arriva all’ultima pagina per dirsi pronto. Ed è un film che può cambiare la vita di ciascuno di noi, perché parla di ciascuno, delle sue crisi, delle sue ansie, delle sue fragilità e insicurezze, della sua difficoltà a creare, ad amare, ad essere sincero. E può cambiare anche il modo di vedere il cinema.
Ripensando al suo cinema, Fellini è stato davvero un profeta, nel senso biblico del termine. Nella Dolce vita aveva intuito senza sentenze tutto il peggio che sarebbe arrivato, dalla moda dei paparazzi (una delle tante parole finite nei dizionari) quindi della vita rubata, fotografata e virtuale, alla teocrazia dell’immagine televisiva, alla crisi dell’intellettuale, allo strapotere della cronaca, a quello del sesso. Ma soprattutto in quasi tutti i suoi film c’era la richiesta gentile di fare un po’ di silenzio. E’ l’ultima battuta della Voce della luna ma già prima ci aveva avvertito, inascoltato.
Era profetico il suo sguardo sul mondo, quando aveva anticipato la guerra balcanica nella Nave va, le moto selvagge in corsa alla fine di Roma, l’amore con la ballerina meccanica in Casanova, nel Bidone i trafficoni diventati di moda; quando scopriva facce sconosciute e quando chiedeva appunto di ascoltare solo il rumore dentro, quello che lui riusciva a esprimere nelle immagini di un suo rumoroso e inimitabile teatrino.
L’aggettivo felliniano è tuttora così dirompente perché in tempi non sospetti ha sancito l’influenza e l’importanza della figura di Federico Fellini nell’immaginario collettivo italiano e internazionale. Felliniano è un aggettivo che indica un preciso modo di vedere il mondo, uno sguardo sull’umano e sulla società che dialoga con il concetto di limite e in cui si fondono realtà e sogno, un mondo in cui i caratteri vengono esplorati attraverso l’uso del grottesco e della caricatura.
Se Fellini è riuscito a incidere così tanto nel suo tempo e a influenzare profondamente gli anni a seguire, non è semplicemente per la qualità delle sue opere ma per la visione poliedrica del suo sguardo sul mondo e i moduli attraverso cui questo si è tradotto in espressione artistica. Regista, infatti, è un termine limitante- a meno che con questa parola non si intenda il saper mettere in dialogo i suoi tanti talenti- perché Fellini è stato un creatore