I’m obsessed with images
L’arte radicale di Arthur Jafa
di Francesco Lughezzani
Chi è Arthur Jafa? Il nome di questo artista afroamericano fino a pochi mesi fa era forse sconosciuto ai più, almeno in Italia, a eccezione degli addetti ai lavori che potevano aver visto le sue opere esposte negli ultimi anni in molti musei e mostre internazionali, dal Metropolitan Museum of Art al MoMA di New York, dalla Tate a Londra allo Stedelijk di Amsterdam. All’artista sono state raramente dedicate personali nel nostro paese prima del trionfo veneziano, pochi mesi fa. Arthur Jafa è il vincitore del Leone d’Oro per il miglior partecipante a May You Live In Interesting Times, questo il titolo della 58. Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia, curata da Ralph Rugoff. L’opera The White Album (2019), esposta al Padiglione Centrale dei Giardini, è un collage di immagini tratte dai social – Instagram in primis – dal web ma anche da film e videoclip, che compone una riflessione intima e dolorosa sull’alterità, con cui il regista si confronta nell’arte come nel quotidiano in termini di potere, di dominio e sottomissione: come si può definire la whiteness? Cos’è ciò che definiamo uomo bianco? Jafa è stato definito artista, curatore della fotografia, filmmaker. Ed è tutte queste cose, in effetti. Nel 1991 ha conquistato il premio per la Miglior Fotografia al Sundance Film Festival per il suo lavoro nel film Daughters of the Dust, diretto da Julie Dash – pellicola indipendente, tra le pochissime opere dirette da una donna afroamericana a essere state distribuite negli Stati Uniti negli ultimi trent’anni.
Ma ha collaborato anche con Stanley Kubrick sul set di Eyes Wide Shut (1999), con Spike Lee – per cui ha curato la fotografia di Crooklyn (1994) – e con molti fra i più celebri artisti hip hop della musica contemporanea. Per Jay-Z lo studio Tneg – fondato da Jafa insieme a Elissa Blount Moorhead e Malik Sayeed – ha prodotto il videoclip 4:44 mentre Solange Knowles ha scelto Jafa come direttore della fotografia per i video musicali di Cranes in the Sky e Don’t Touch My Hair. Classe 1960, l’artista proveniente da Tupelo in Mississippi dopo gli studi alla prestigiosa Howard University si è stabilito a Los Angeles, dove attualmente vive e lavora: nel 2013 ha realizzato il documentario Dreams Are Colder than Death, in cui intervista personaggi di spicco della cultura e politica afroamericana, dal regista Charles Burnett alla poetessa Hortense Spiller, dal professor Fred Moten all’attivista Kathleen Cleaver. Il nodo su cui concentra la sua analisi affronta l’eredità di Martin Luther King e di altri leader afroamericani. Cosa significa oggi essere neri, negli Stati Uniti d’America? Quali sogni sono rimasti? Ciò che definisce meglio di ogni altro termine l’identità di Arthur Jafa è collezionista di immagini. «I’m a collector of images», e il mestiere lo pratica fin dalla prima infanzia, quando amava i film di arti marziali e ritagliava foto da tutti i quotidiani, le riviste e i libri che riusciva a trovare. Arthur ha continuato a lavorare con carta e forbici, dalla giovinezza all’età adulta. La collezione si è espansa, occupando negli anni decine e decine di quaderni che costituiscono il terreno di coltura da cui sono fiorite molte delle opere di cui parleremo.
A questa ossessione per l’accumulo di immagini viene ricondotto il video APEX, presentato per la prima volta al MoMa nel 2013: costituita da una serie di 841 fotografie e immagini di varia origine poste in rapida sequenza, l’opera è scandita dal ritmo di un beat elettronico, composto da Robert Hood. Ripetitivo e ossessionante, questo scheletro musicale costituisce il tempo su cui si muove la composizione di Jafa: a un battito, un’immagine. Il percorso è un climax, un crescendo che ci conduce all’apice, alla conclusione che fluisce in uno schermo nero e prolungato in solenne contrasto al rapido montaggio che l’ha preceduto. Una dopo l’altra le immagini ci mostrano personalità fondamentali per la cultura afroamericana, in ogni settore, da Michael Jackson all’attivista e rivoluzionaria Assata Shakur, mescolandole con fotogrammi tratti da film, spesso raffiguranti mostri o alieni: da Lo squalo a Cloverfield, dallo xenomorfo di Alien alla balena del Pinocchio disneyano[1]. L’alterità dell’alieno, che incute timore e attrae lo sguardo allo stesso tempo, viene accostata all’identità black e a icone di cultura pop come Wesley Snipes, protagonista della saga Blade, tra i capostipiti dei cinecomic Marvel. L’artista rende il suo codice visuale complesso e volutamente sgradevole inserendo anche immagini di brutale violenza: corpi straziati, feriti, coperti da cicatrici, che colpiscono lo spettatore e lo mettono in imbarazzo per la loro crudezza. Come ha ben evidenziato la studiosa Bell Hooks, le immagini che costituiscono APEX rimbalzano, tornano allo spettatore poco dopo essere state percepite e lo obbligano a chiedersi: cosa sto guardando? La bellezza di volti, corpi e storie che queste immagini raccontano si mescola alla rappresentazione della mutilazione, della morte, del non-essere, in un plasma denso e disturbante che non concede tregua né fornisce facili definizioni. La realtà della sopravvivenza afroamericana negli States è un tessuto intricato, che si frammenta in pezzi di corpi, schegge di uno sguardo in grado di dare nuova vita all’archivio di immagini, associate l’una all’altra e ordinate più e più volte dall’artista lungo un lavoro di oltre cinque anni. Una di queste foto, risalente alla seconda metà dell’Ottocento, è il ritratto dell’ex schiavo Gordon, fuggito da una piantagione della Louisiana nel 1863. La sua schiena è segnata da profonde e ramificate cicatrici, frutto delle continue frustate: una delle immagini più suggestive e importanti dell’opera, secondo l’artista. «I was forced to articulate the complexity of an image that’s both horrifying and attractive»[2] spiega Jafa, per cui Gordon diventa l’emblema dell’esperienza afroamericana negli Stati Uniti «a complex of majesty and misery, that are, like, inextricably bound up»[3]. Il film riflette sui rapporti di potere, sui corpi di uomini e donne afroamericani ripresi dall’obiettivo di una macchina da presa o una fotocamera a cavallo di tre secoli. Jafa afferma che davanti a un obiettivo, a prescindere da chi lo guidi, l’identità afroamericana è sempre in una condizione di sudditanza, una passività interiorizzata dalla consapevolezza di essere stati schiavi, esseri umani considerati strumenti e ora nuovamente oggetto dello sguardo, il white gaze. Uno sguardo che taglia, strazia ma viene a sua volta ammaliato, sedotto dai corpi che ritrae. Un evidente straniamento conduce lo spettatore Occidentale a una violenta presa di coscienza riguardo al potere del proprio occhio su questi volti, corpi, identità, travolto dal contrasto tra repulsione e seduzione. L’andamento ondivago di alcune immagini che tornano a più riprese nel montaggio stabilisce degli echi nel climax e un esempio lo possiamo rintracciare nella ricorsività di fotografie dallo spazio, che ritraggono lontani pianeti e stelle, in particolare il sole. L’artista vuole sollevare il proprio sguardo a una prospettiva cosmica, alla stella del nostro sistema solare, ripresa e ingrandita fino a distinguere macchie, esplosioni e plasma ribollente: una materia incandescente che deflagra nell’oscurità più assoluta, immagine di un’illuminazione che scioglie, distrugge e scarnifica.
Con Love Is The Message, The Message Is Death (2016) Jafa approfondisce la lettura dei quattrocento anni di storia afroamericana attraverso il mondo dell’immagine, questa volta in movimento: non più fotografie o fotogrammi, ma frammenti di video provenienti da trasmissioni televisive, video privati e contenuti presi dal web. Il titolo dell’opera è un esplicito rimando al racconto Love Is the Plan the Plan Is Death, di James Tiptree, in cui un ragno senziente tenta di sfuggire a “the Plan”, un sistema che equilibra le specie viventi attraverso regole predatorie e spietate[4]. Anche il mondo descritto da Jafa sembra guidato da simili principi. Nei primi sessanta secondi vediamo un uomo intervistato dalle televisioni difendersi da un’accusa pregiudiziale, una folla a una partita di basket che inneggia all’unisono ai giocatori, una clip dal programma televisivo Dance or go home, una marcia per i diritti civili, un uomo afroamericano ucciso da un poliziotto che gli spara alle spalle, il frammento di un video dell’artista e amico Kahlil Joseph[5], una danza sensuale, la poetessa Hortense Spiller che cammina in slow motion e il presidente Barack Obama che intona il canto Amazing Grace a una commemorazione per le vittime del massacro di Charleston. L’installazione inizia nella più totale oscurità, avvolgendo lo spettatore, mentre inizia la musica che conduce il ritmo delle immagini; è il brano di ispirazione gospel Ultralight Beam, di Kanye West: «This is a God dream. This is a God dream. This is everything». Il ritornello conduce in una dimensione ultraterrena, un raggio di luce che scolpisce il passaggio fra le sequenze. Helen Molesworth, curatrice del MOCA di Los Angeles, ha fatto notare come ogni movimento e gesto contenuto nelle clip usate dall’artista è un’espressione corporea di compressione e rilassamento: la danza, lo sport, il gesto atletico è il codice visivo ricorrente che contrasta la violenza accostata a esso, la esorcizza sfogando la rabbia, la frustrazione attraverso la potenza dei gesti e dei corpi rappresentati. Corpi che seducono lo sguardo dello spettatore, lo affascinano, lo affrangono. Corpi alieni, mostri che demoliscono interi centri urbani sono accostati ai movimenti di alcuni campioni NBA. Come è possibile che la gioia espressa da questi movimenti scaturisca in un panorama di simile violenza? Jafa ha dichiarato di volersi avvicinare a una rappresentazione che possa replicare il potere, la bellezza e l’alienazione della musica nera, nell’ambito delle arti visive. L’eterogeneità delle immagini contenute nell’opera e connesse da un rapidissimo montaggio è una cartina al tornasole della complessità propria alla tradizione musicale afroamericana, dalle sue origini durante i secoli della schiavitù al suo sviluppo come ossatura della cultura afroamericana nel suo complesso. La malinconia della blue note, dal jazz al soul, dal gospel al rhythm and blues, attraversa l’opera e scoperchia le dissonanze, le collisioni tra le immagini che vengono presentate. Gli accostamenti possono divertire – quando osserviamo Drake muoversi alle note dell’odiato rivale West – e subito dopo sconcertare, quando a una sequenza di ballo di gruppo segue quella di un brutale pestaggio di tre agenti di polizia ai danni di un uomo afroamericano. Non c’è quasi il tempo di processare le immagini che osserviamo. Anche qui esse ritornano, obbligando a interrogarsi su ciò che viene montato. In questo flusso di coscienza collettiva si staglia il sole, qui come in APEX una forza cosmica da osservare alzando lo sguardo: «…the sun is the appropriate scale at which to consider what’s going on. It’s fundamentally an assertion that black people’s lives should be seen on a cosmological level…I want you to look up at these things that are happening to black people, not down – the way you would stare at the sun»[6]. Musicisti, ballerini, artisti, atleti, poeti e intellettuali: sono fratture sulla superficie solare, esplosioni concentrate in una sequenza ascendente di volti, corpi e urla che costituiscono la complessità di un mondo immerso in un costante conflitto. Sono immagini che mutano continuamente, come la superficie della nostra stella, soggette a fenomeni violenti e a continui sconvolgimenti.
Tre anni dopo, su commissione del Berkeley Art Museum – Pacific Film Archives (BAMPFA), Jafa volge lo sguardo, invertendo la prospettiva con cui collegare e decodificare immagini. Siamo arrivati dunque dove abbiamo iniziato: The White Album (2019) sorge dall’esigenza di comprendere il funzionamento del “sistema”, di cui parlava Tiptree, in cui vive e sopravvive l’autore. Cosa significa essere bianchi, secondo lo sguardo di un artista nero in America? Anche in questo caso Jafa dissemina l’opera di riferimenti dalla cultura pop, montando video da Instagram, da webcam private, telecamere di sorveglianza, video musicali. Questa volta però allunga i tempi. Dagli 8 minuti di Love is The Message a 40 minuti di montaggio, in cui il ritmo sovente rallenta, indugiando in alcune sequenze tagliate poi brutalmente. L’opera si apre con un primo piano del volto di Alex, protagonista di Arancia Meccanica (A Clockwork Orange, 1968) di Kubrick, che guarda l’obiettivo, seguito dalle riprese di un controverso raid aereo durante la guerra in Iraq, in un video diffuso da Wikileaks. Quella che vediamo è violenza mediata, messa in scena ma anche oscenamente reale. L’artista complica il tracciato, intervallando queste sequenze con alcune riprese di Reginald Denny, un uomo bianco pestato brutalmente da alcuni membri della gang Crips a Los Angeles nel 1992, durante il periodo di rivolte seguito al pestaggio del tassista Rodney King da parte di alcuni agenti di polizia. Sembra non esistere un chiaro equilibrio tra il soggetto e l’oggetto della violenza, quanto un continuo ribaltamento di senso che confonde lo spettatore e svia facili interpretazioni. Una lunga sequenza viene poi dedicata al videoclip The Pure and the Damned (2017) del compositore sperimentale Oneohtrix Point Never, realizzato per la colonna sonora del film Good Time (2017), di Josh e Benny Safdie – in cui Robert Pattinson insieme al fratello rapina una banca con indosso una maschera in silicone che replica le fattezze di un uomo afroamericano. Un Iggy Pop digitale canta «Love, make me clean. Love, touch me, cure me. The pure always act from love.
The damned always act from love». Purezza e dannazione sono i due poli che si attraggono e confliggono continuamente, provocando un effetto straniante, come nel momento in cui alle parole di Pop, che canta di entrare in un’utopia in cui potremo fare ogni cosa, anche accarezzare un coccodrillo, Jafa interrompe la sequenza e con un netto taglio introduce le immagini di una telecamera di sorveglianza che riprende un ragazzo scendere dall’auto ed entrare attraverso una porta d’ingresso. Facendo attenzione, si nota l’identità del soggetto: è Dylan Roof, suprematista bianco autore dell’attentato di Charleston e responsabile della morte di nove persone. Allo stesso modo Jafa accosta immagini di un film comico con O. J. Simpson al video di un uomo bianco che svela sotto alla maglietta un fucile semiautomatico e un impressionante arsenale di armi e pistole, nascosto da una maglietta e un paio di jeans. Il meccanismo di prossimità affettiva con cui Jafa estrapola immagini sottraendole al loro contesto dona un significato nuovo a video che noi stessi potremmo osservare liberamente ogni giorno. Da buon collezionista, l’artista cerca di costruire una traccia nell’intricato magma di dati in cui siamo immersi obbligandoci a incontri sgradevoli con uno schermo che diventa riflesso e specchio. In un’altra sequenza una giovane si lamenta di non poter parlare liberamente nel proprio quotidiano perché afroamericani e ispano-americani sono troppo sensibili; subito dopo un ragazzo nero parla all’obiettivo del suo smartphone e le risponde «You mad…You want me to argue with you? I don’t get paid to argue with you»[7]. L’artista inserisce poi nel montaggio una delle clip più lunghe, proveniente da un video realizzato da un autoproclamatosi reformed racist, Dixon White, redneck dal cuore d’oro che si interroga sul razzismo delle istituzioni americane, invitando a superarlo e ad abbandonare l’odio razziale verso gli afroamericani. L’uomo in questione in realtà si chiama Jorge Moran, è un aspirante attore di origine cubana con la missione di sensibilizzare le platee digitali ad alcuni temi a lui cari. La whiteness è dunque un’esperienza che si interseca alla messa in scena, alla recitazione secondo regole continuamente rovesciate che connettono bene e male, purezza e dannazione. L’artista afferma la necessità di conoscere profondamente il sistema in cui si muove, le sue regole: anche perché nell’opera appaiono, in particolare nelle scene finali, alcune persone bianche che l’artista ama, riprese durante una mostra a lui dedicata alla Gavin Brown Gallery. The White Album è un tentativo non ancora definitivo di conciliare questa drammatica dualità: pured/damned, violenza/amore, sopravvivenza/morte attraverso raccolte di immagini. Forse Jafa non riuscirà mai a conciliare questi estremi, né a calmare il conflitto che ne scaturisce, eppure offre a noi spettatori una chiave per decifrare la complessità del reale, guardandoci negli occhi: «This is how I exist. This is my life, in which I cease trying to reconcile this things and accept that both of them are true: that white people are devil and that I love many of them»[8].
NOTE
[1] D’altronde molte delle immagini utilizzate in APEX facevano parte di un corpus visivo alla base di un grande progetto cinematografico sci-fi, mai realizzato.
[2] «Mi sono sforzato di sviluppare la complessità di un’immagine che è allo stesso tempo attraente e spaventosa».
[3] «Un miscuglio di maestosità e miseria, che sono poi inestricabilmente unite insieme».
[4] James Tiptree era lo pseudonimo della scrittrice di fantascienza Alice Bradley Sheldon.
[5] Anche lui presente alla Biennale Arte con la monumentale installazione BLKNWS, immaginario canale televisivo dedicato alla cultura black.
[6] «Il sole è la prospettiva appropriata da cui considerare cosa sta succedendo. È fondamentalmente un’affermazione che la vita delle persone di colore dovrebbe essere vista a livello cosmologico. Voglio che guardiate a ciò che sta accadendo alle persone colore, non volgendo lo sguardo in basso – ma nel modo in cui guardereste il sole».
[7] «Sei pazzo. Vuoi che litighi con te? Non vengo pagato per discutere con te».
[8] «È così che esisto. Questa è la mia vita, nella quale ho smesso di cercare di conciliare queste cose e accetto che entrambe sono vere: che i bianchi sono diavoli e che amo molti di loro».
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