In difesa dell’effimero
Mal d’archivio, Derrida e Letterboxd
di Simone Coghi
In una misura o nell’altra, tutti siamo accomunati da un simile desiderio di far memoria delle nostre storie personali, di curare un personale archivio dove i nostri ricordi più cari sono conservati al sicuro dall’incedere del tempo. Il filosofo francese Jacques Derrida esplora le radici psicoanalitiche di questo desiderio nel suo saggio Mal d’archivio. Un’impressione freudiana, pubblicato nel 1995 (ed. ita Napoli, Filema, 1996), entrando in conversazione con vari concetti freudiani. L’idea di Derrida è che l’istinto ad archiviare proviene da una sensazione di radicale finitezza delle cose, ed è una reazione all’angosciosa impressione che, lasciando svanire certe memorie, lasciamo irrimediabilmente morire una parte di noi.
Nel contesto del cinema, fare archivio può voler dire molte cose. L’associazione più immediata è quella degli archivi cinematografici, gli enti preposti alla conservazione di opere audiovisive per motivi storiografici e di preservazione. Esistono anche archivi più intimi, le cosiddette raccolte di home movies, album di ricordi audiovisivi solitamente consumati nella privatezza delle case da cui provengono. Ma, oltre a questi esempi di preservazione materiale, c’è un tipo di archiviazione meno tangibile che si è fatta strada tra i cinefili del mondo, e che sembra essere diventata uno strumento imprescindibile dell’esperienza cinematografica più “cool”.
Letterboxd è una piattaforma online, a metà tra social network e catalogo digitale, nata in Nuova Zelanda nel 2011. Il sito permette di registrare le esperienze filmiche dell’utente, segnando i film che si sono guardati, dandogli un giudizio da una a cinque stelline, scrivendo recensioni, commentando quelle altrui e listando i propri film preferiti. La piattaforma è esplosa di popolarità, raggiungendo i 10 milioni di account nel 2023, vantando tra le sue fila utenti prestigiosi come Martin Scorsese e inondando i social di interviste con varie celebrità.
Come ogni social network degno di questo nome, Letterboxd trascina con sé tutta una serie di irritanti aspetti egomaniacali dal tipico sapore internettiano: le recensioni in formato tweet, le battute sagaci acchiappa like, le polemichette inutili per generare flame, l’affanno di accumulare film visti e sfoggiare con orgoglio le proprie top five e altre statistiche, come una sorta di personale pantheon di narcisismo cinefilo. Ma tralasciando questi tipici aspetti social, intratteniamoci per un attimo a interpretare attraverso lenti derridiane questo fenomeno, concentrandoci sull’atto in sé di archiviare digitalmente. Nel meticoloso incasellamento di film nel proprio personale archivio informatico, si legge un desiderio di incastonare quelle memorie in uno spazio sicuro. Ancor di più, allegando a ogni film una recensione e qualche stellina, si tenta di congelare i sentimenti provati in sala, sperando di tenerne viva l’essenza.
Derrida parla dell’atto di archiviare come di un tentativo di lasciare traccia dell’evento originario, un solco che permetta di tornare nostalgicamente a un luogo familiare. Ma, al tempo stesso, il filosofo riconosce la vanità di un simile tentativo: se l’archivio diventa l’unico luogo preposto a fare memoria, che fine fa tutto ciò che ne viene lasciato fuori? In termini cinematografici possiamo chiederci: che ne è di tutti quei sentimenti sotterranei che covano nei mesi dopo aver visto un film; delle manipolazioni della memoria che trasforma, mischia e scombussola i ricordi; di quelle effimerità che accadono in sala e che ci muovono internamente senza essere capaci di registrarle?
Riempire il proprio catalogo di film sembra essere un tentativo di esorcizzare la paura della propria impermanenza, come se avere la prova di aver veramente vissuto quelle esperienze fosse un palliativo sufficiente all’idea che un giorno andranno tutte perdute. Non importa se nella propria interiorità quei ricordi sono già svaniti o impoveriti, fintantoché, segnandoli meticolosamente sul proprio account, se ne è lasciata testimonianza. Fungendo da “memoria esterna”, Letterboxd allevia dal fardello di tenere vivi i propri ricordi più cari, donando loro una qualche forma di eternità, sebbene chiaramente illusoria. Affidando la propria memoria filmica a uno strumento esterno, si registrano informazioni parziali, congelate, senza vita e – mentre archiviamo come contabili scrupolosi – ci lasciamo sfuggire l’effimero, perdendo più di ciò che preserviamo.