Interzona Burroughs

William S. tra parole e immagini

di Riccardo Chiaramondia

Viviamo in un mondo razionale dove, la logica secondo cui a un’azione segue sempre una reazione e la linearità di spazio e tempo, sono dogmi che accettiamo ciecamente e che guidano le nostre esistenze. Ci sono, però, persone in grado di sfuggire a tutto questo, persone per cui luoghi, date e realtà non vogliono dire quasi nulla.
Loro possono vivere mille vite contemporaneamente in realtà altre, infinitamente diverse, ma profondamente simili: essi rappresentano un eterno paradosso e, prendendo in prestito le meravigliose parole di Wisława Szymborska, rispetto a noi sono «diversi come due gocce d’acqua». Io non sono in grado di capire i mondi dentro di loro e quelli che vedono fuori da sé, posso solo limitarmi a osservarli e cercare di entrare in quell’affascinante e pericoloso mistero.
Una di queste figure mistiche è stata William S. Burroughs. Tanti hanno provato a raccontarlo e l’unica costante è quell’alone di inaccessibile alterità: a lui, sotto lo pseudonimo di Old Bull Lee, e ai suoi giorni a New Orleans sono dedicate alcune delle pagine più belle de Sulla strada dell’amico e sodale Kerouac, di lui parla con reverenza e amore Patti Smith, protagonisti insieme di una delle poche foto in cui negli occhi impenetrabili di Burroughs si scorge un stilla di umano affetto, e suo è il personaggio più significativo e fortemente biografico di Drugstore Cowboys. L’immagine che emerge è quella di un Santo pagano, profondamente peccatore e lontano da ogni morale, umanamente disumano o disumanamente umano, scegliete voi: non è un caso che nella citata opera di Gus Van Sant egli interpreta un reverendo e nel suo racconto The Junky’s Christmas, messo poi in musica con Kurt Cobain, il co-protagonista è un prete dalle sembianze profondamente burroughsiane.

Eroina, morfina, benzedrina, alcool, occultismo, armi, una vita salvata e una tolta giocando, sotto l’effetto di sostanze, a Guglielmo Tell con una pistola a Città del Messico, la latitanza; St. Louis, Chicago, Harvard, Vienna, New York, Texas, New Orleans, Città del Messico, Parigi, Tangeri, Londra, Berlino, la Foresta amazzonica, la sua testa. Mille vite e mille luoghi, un insieme troppo grande per essere raccontato razionalmente e così lui stesso, vivendo in una realtà altra lontana dalle leggi della nostra, della sua vita ne ha fatto opere d’arte di un autobiografismo spinto e surreale, oltre ai limiti della credibilità eppure profondamente vero.

L’opera più famosa e tra le più rappresentative della sua estrema poetica è Pasto nudo, scritto durante l’auto-esilio nella Zona internazionale di Tangeri a seguito dell’omicidio di Joan Vollmer e narrante una serie di episodi apparentemente sconnessi in un mondo mostruoso – l’Interzona – dove è in atto un tentativo di controllo delle menti da parte di entità politico-statali. Questo lucido delirio è stato parzialmente razionalizzato oltre trent’anni dopo ne Il Pasto nudo da David Cronenberg, regista vicino a quell’immaginario, eppure qua limitato dalla necessità di legare le schegge del romanzo con un impianto narrativo più solido. Il risultato è ottimo e prossimo alla fedeltà, eppure c’è qualcosa che manca: il cut-up.

Geniale intuizione che fu già dei dadaisti e di Tristan Tzara in On Feeble Love and Bitter Love: Dada Manifesto, il cut-up è stato perfezionato ed eletto come tecnica madre della propria poetica da William S. Burroughs e Brion Gysin, pittore, scrittore, artista performativo e uno dei nomi di punta della Beat Generation. Testi scritti su diversi fogli vengono accostati, tagliati, riposizionati e risemantizzati in maniera casuale: da un’opera realizzata secondo una logica razionale ne nasce una nuova, più viva, in cui la somma degli stessi addendi genera un prodotto e dei significati diversi. Ancora una volta ci troviamo di fronte a quella paradossale profonda somiglianza in un’imponderabile essere altro, mille mondi in un solo mondo. Questo, forse, è ciò che di più vicino possa esistere alla poesia che si autogenera, al sogno orfico mai realizzato di Rimbaud e Campana e, senza forse, è l’unico modo per raccontare ciò che è presente in una persona altra come fu Burroughs. Così è stato realizzato non solo Pasto nudo, ma anche La scimmia sulla schiena, The Nova Trilogy, The Third Mind – in collaborazione con Gysin – e molti altri suoi racconti.
Per la complessità umana e stilistica che rappresenta, la tecnica del cut-up, qualora si voglia provare a riproporre in maniera verosimile lo spirito delle opere, deve essere tenuta in considerazione in ogni possibile trasposizione cinematografica di William S. Burroughs, una sfida accettata da Antony Balch in collaborazione con lo stesso scrittore. William Buys a Parrot, Bill & Tony, Towers Open Fire, The Cut-Ups e Ghost at No. 9 (Paris) sono i risultati di questa collaborazione: immagini ricorrenti montate senza una consequenzialità logica e rappresentanti volti, cartelli stradali, artisti all’opera, piccoli eventi quotidiani e altre azioni poeticamente impoetiche che si susseguono sullo schermo accompagnate dalla voce tagliente di Burroughs. Ora è pace, ora è disperazione, ora è dolore, ora è apatia: nella brevità di questi preziosi documenti filmici, 80 minuti se sommati tutti e cinque insieme, è possibile provare ogni sensazione. O non provare niente.

Sono poche le parole che voglio spendere per questi cortometraggi, perché con il discorso razionale non è possibile coglierne l’essenza, per provarci avrei voluto fare io stesso di questo articolo un cut-up, ma – per fortuna di Francesco e Luca che pazientemente ogni mese rileggono le mie parole – non ho dentro di me quei mille mondi e non ne sono capace. Ciò che voglio fare, invece, è consigliarvi di vederli, di viverli e di farvi travolgere come tanti in passato ne sono stati travolti. Forse non vi diranno niente, forse vi parleranno nel profondo, magari anche troppo, ma in ogni caso è un’esperienza che merita di essere provata. Entrate nell’Interzona.