La chimica dei ricordi
Sul documentario Molecole di Andrea Segre
di Michele Bellantuono
Il titolo dell’ultimo film di Andrea Segre, Molecole, già in sé è un pregnante contenitore di temi e significati. A seconda di come ci approcciamo a esso, così come al film stesso, questo sostantivo stimola suggestioni narrative diverse. Il documentario di Segre è ambientato in una Venezia isolata dal lockdown e, come tante opere cinematografiche prodotte quest’anno, è quasi inevitabilmente legato alla narrazione pandemica. È quindi un’immagine in particolare a emergere da questo titolo, quella di «piccoli invisibili elementi naturali che non vediamo ma che determinano l’evoluzione del mondo». Queste parole, recitate dalla voce fuori campo del regista (operatore e anche narratore del film), evocano contemporaneamente due immagini, legandole assieme in una combinazione, o una formula, per stare in tema. Da un lato, le molecole invisibili sono quelle del Coronavirus, un qualcosa di molto piccolo che ha dimostrato di poter deviare catastroficamente il flusso delle attività umane. Dall’altro, la molecola rappresenta la materia di studio del padre del regista, fisico e chimico di origini veneziane.
Il film Molecole è sospeso quindi tra queste due grandi sfere d’influenza, che quasi magneticamente scandiscono il ritmo di una narrazione frammentata, in cui il presente pandemico si intreccia con il passato di questa fugace figura paterna, sullo sfondo di una Venezia sempre più deserta inquadratura dopo inquadratura. Un lavoro nato dall’imprevisto dunque, concepito nell’isolamento che Segre ha trascorso inizialmente a Venezia, nell’appartamento di una parente presso l’isola della Giudecca. Il regista, che vive a Roma, si trovava nel capoluogo veneto per girare un film sugli aspetti più critici della città, partendo dal racconto della disastrosa acqua alta eccezionale dello scorso inverno. Le prime figure interrogate dal regista condividono quindi le proprie esperienze legate a quelle difficili giornate. Ma l’attenzione sin dall’inizio è rivolta a quello che è il principale stimolo narrativo attorno al quale si dipana la pellicola, ovvero la presenza (e assenza) del padre Ulderico, scomparso nel 2008 a causa di una malattia.
Una presenza che sopravvive nelle vecchie pellicole, nei filmini in super8 da lui girati e qui inseriti nel montaggio del film secondo una modalità congeniale a molti documentaristi contemporanei. L’utilizzo del repertorio audiovisivo non è infatti una risorsa nuova per Segre, che ha sfruttato questa modalità di montaggio già nel precedente documentario I sogni del lago salato. In quel film, storie legate allo stato di benessere del Kazakhstan odierno si intrecciavano con il ricordo degli anni 60 italiani, periodo di boom economico segnato dalla presenza di colossi come l’ENI. Anche in quel film si osservava l’intreccio tra linee temporali che ritroviamo in Molecole, ma tra le similarità dei due lavori si fa notare anche la componente autobiografica, legata alla famiglia dell’autore, con il ricordo della madre, presa come simbolo di una generazione cresciuta in quel clima di benessere. Passato e presente confluiscono così in un unico flusso narrativo: un’altra forma di chimica se vogliamo, quella che nasce dal montaggio cinematografico, in grado di dar vita a significati attraverso un semplice accostamento di immagini, che in questo caso corrispondono a diversi frangenti della vita del regista.
Da un altro la presenza dello spettro paterno, dall’altro l’assenza. Che è poi il vuoto lasciato da una perdita, ma anche lo spazio tra un elettrone e l’altro, come nell’immagine descritta nel film. È in fondo soprattutto un film sulle relazioni, Molecole. Tra padre e figlio in primis, tra esseri umani, organismi che interagiscono, si combinano, si respingono. Anche una relazione tra uomo e natura, vissuta nel rapporto unico al mondo tra cittadino e mare, minaccia e bellezza al tempo stesso. Un mare che spinge i veneziani a ritirarsi ai piani alti delle abitazioni, ma che li trattiene ammaliati in questa preziosa città, un patrimonio che inevitabilmente provoca un rapporto di amore e odio, ormai secolare.
Le premesse dei comunicati stampa ci hanno forse preparato a un film su questa Venezia, colta in un momento di massima fragilità e, al tempo stesso, estremo fascino. Gli inglesi avrebbero il termine più adatto per descrivere la città lagunare privata dell’onda endemica di turismo: hauntingly beautiful, espressione romantica che descrive una bellezza mista a paura, alla sensazione di essere di fronte a un qualcosa che può sopraffarci. Qualcosa come una pandemia. Una tempesta improvvisa di molecole invisibili, che non impediscono a Segre di girare il suo film, ma che ne cambiano inaspettatamente lo scenario. Venezia deserta fa paura e non solo per quanto è bella. La voce dell’autore è fuori campo ma vicina allo spettatore, che si ritrova così quasi a vestirne i panni, potenzialmente attraversando anche un processo di immedesimazione. Tanta è l’intimità con la quale Segre mette a nudo i suoi sentimenti, in un film che sembra funzionare davvero come la necessaria valvola di sfogo di un rapporto lasciato in sospeso, una combinazione di molecole destinate a combaciare solo nella dimensione nebbiosa del ricordo, sfruttando il reagente costituito da una quarantena che, in mille modi diversi, ci ha congelati di fronte a noi stessi, ponendoci magari nella condizione di incrociare uno sguardo insolito, fosse anche il nostro stesso riflesso nello specchio. Molecole parla di tutto questo. È il tentativo più umano che artistico di fare i conti con il proprio passato, evocato dallo scenario irreale di una laguna di nebbie e silenzi, in cui un semplice colpo di remi nell’acqua piatta è sufficiente a far vibrare le corde della memoria.