L’aria serena dell’Est
La 41. edizione del Torino Film Festival
di Marina Fornasari
La terza e ultima conduzione del TFF di Steve Della Casa si è distinta come al solito per la ricca e variegata offerta. Ho apprezzato la retrospettiva dedicata a un regista bistrattato come Sergio Citti, ma ho disertato quella su John Wayne, non essendo mai riuscita ad affrancarmi dall’imprinting politically incorrect dei western nei cinemini parrocchiali della mia infanzia, un incubo popolato da musi rossi assatanati di scalpi, impiccagioni à gogo e corpi rimbalzanti crivellati di colpi.
Molto più nelle mie corde è stato il focus sul nuovo cinema argentino, in cui ho ritrovato le prerogative dei suoi cineasti: la lucida ironia, la tensione verso nuove forme estetiche e il desiderio di mostrare al resto del mondo il paese reale. Mi ha incuriosita l’impiego in più di una pellicola di una onnisciente voce narrante truffautiana, in particolare in Los delincuentes di Rodrigo Moreno, punta di diamante di questa rassegna.
Quanto al film vincitore, nelle ultime due edizioni la mia scelta aveva collimato con quella della giuria, riempiendomi di orgoglio, mentre nel caso di quello premiato quest’anno, l’ucraino La Palisiada, no, ma probabilmente perché non ho avuto l’occasione di vederlo (faccina che ride). Nel mio personale palmares, i due film che a festival concluso si stagliano ancora nitidi nel magma dell’abbuffata festivaliera, provengono dall’Est ma, in entrambi i casi, l’aria che vi tira è tutt’altro che serena.
Il primo, Grace, del russo Ilya Povolotsky, non merita di essere banalmente catalogato come road movie o coming of age: la sua natura potente e allo stesso tempo eterea sfugge a qualsiasi classificazione. A bordo di un furgone fatiscente di cinema itinerante, un padre e una figlia adolescente, solitari e senza nome, attraversano la Russia periferica, le cui regioni più desolate e i sordidi panorami urbani in disarmo, indagati da ampie panoramiche, campi lunghissimi e lenti zoom, sembrano fungere da metafore di una decomposizione morale e forse, in ultima analisi, della Russia odierna. Anche l’umanità multietnica che la popola, laconica e dolente, conferma la percezione che queste lande desolate siano l’ultimo posto sulla terra dove uno vorrebbe vivere, infatti il velleitario desiderio di fuga è un po’ il leitmotiv di vari personaggi che i due incontrano nel loro girovagare.
Nonostante questa descrizione poco accattivante, il film mi è piaciuto per diversi motivi: per la sua cruda bellezza, perché è in sintonia con il mio attuale mood, ma soprattutto per motivi nostalgici, e cioè per i manifesti omaggi a quello che è stato il mio film del cuore per quasi un trentennio, Nel corso del tempo di Wim Wenders. In entrambe le pellicole i protagonisti sono infatti taciturni proiezionisti, uno su un camion, l’altro su un furgone, che conducono una vita itinerante di “falso movimento” tra inospitali lande di frontiera da post-apocalisse, quasi fossero condannate a un inverno perpetuo da un incantesimo maligno, in una rarefazione del tempo e dello spazio. Nei radi dialoghi, i personaggi restano isolati nella loro estraneità ed è come se si viaggiasse sul confine di un mondo alieno, connotato da una pesante disaffezione dei luoghi, che si nota in ogni dettaglio. Due citazioni molto puntuali confermano senz’ombra di dubbio la fonte d’ispirazione di questo regista russo: il rito mattutino della barba del padre, col pennello e l’ausilio dello specchietto retrovisore del furgone, e l’espletamento dei propri bisogni en plein air della figlia, dove Wenders non ci risparmiava i dettagli della performance fisiologica live di Rüdiger Vogler, accovacciato in mezzo al nulla, unico motivo per cui in tanti ricordano questo film che, nel lontano ’76, risultava piuttosto indigesto a spettatori non ancora abituati alle versioni originali con sottotitoli e alle durate ipertrofiche. Rimandano piuttosto a Alice nelle città, le polaroid che la ragazza scatta spesso a persone, tutte girate di spalle, quasi a voler sottolineare la loro perdita di identità in questo limbo infinito.
A questo punto il vero arcano di Grace è l’interpretazione del titolo, a meno che non lo si legga in senso ironico, visto che la grazia non sta di casa in questa plumbea waste land alla periferia dell’esistenza umana.
Al primo posto ex aequo del mio personale podio, si trova, come anticipato, un altro film dell’Est, del romeno Radu Jude, Non aspettarti troppo dalla fine del mondo, che già dal titolo ci fa capire di essere dalle parti di Grace. Ma se nel film russo la deriva esistenziale, sociale e politica veniva resa attraverso tempi e movimenti di macchina lenti e, a onor del vero, a tratti un po’ estenuanti, in questa tentacolare pellicola filosofica in forma di commedia lo spettatore viene catturato da un vertiginoso e amaro caleidoscopio della modernità squilibrata in cui viviamo, tra spietato sfruttamento dei più deboli, corruzione aziendale e governativa, fantasmi del comunismo, razzismo, sessismo, degrado urbano e tossicità della cultura virale dei social-network.
Il film segue Angela, una Ilinca Manolache trasudante personalità nella sua ordinarietà, che di lavoro fa l’assistente di produzione e gira incessantemente in auto per eseguire piccoli casting a persone rese disabili da incidenti sul lavoro. L’obiettivo della casa di produzione per cui lavora, apparentemente, è di realizzare un video “pubblicità progresso” sulla sicurezza nell’ambiente lavorativo, ma in realtà è di bieca propaganda, affinché l’azienda possa camuffare le proprie negligenze.
La pellicola, in apparenza di grana grossa, libera com’è da regole, cortesia e buon gusto, tuttavia intellettualmente vigorosa, parte un po’ a rilento, per poi ipnotizzarti gradualmente con la sua ardita stratificazione narrativa e visiva di affascinante complessità. E infatti è una sfida persa in partenza riuscire a dipanare a parole questa matrioska di formati e contenuti, ma ci proverò. Un granuloso e torbido bianco e nero delimita la vorticosa giornata lavorativa tipo della figura principale, la resiliente e pur ribelle Angela che, abbigliata in un improbabile abito da festa in paillettes, si dibatte tra interviste agli infortunati sul lavoro, interminabili ore al volante nel traffico disumano di Bucarest e incontri vari, sortendo l’effetto di un cinico tour guidato della vita contemporanea cittadina.
A questo nucleo narrativo principale, Radu giustappone frammenti di un film romeno propagandistico a colori del 1981, Angela merge mai departe, su una tassista che cerca di sbarcare il lunario sotto il soffocante regime di Ceaușescu. Questo secondo piano narrativo ha da un lato lo scopo di sottolineare le traiettorie parallele delle due Angela che combattono il patriarcato e le ingiustizie sociali in due società post-totalitarie, e dall’altro di creare un contrappunto percettivo tra il falso benessere della Romania di Ceaușescu e la precarietà del mondo attuale. Il film è poi intercalato da esilaranti incursioni dell’avatar digitale di Angela su TikTok che, nascosta dietro un filtro facciale con tanto di monosopracciglio e testa calva lucida, impersona un ripugnante e sboccato influencer misogino di nome Bobita, che vomita irripetibili invettive xenofobe e sessiste.
Un inopinato momento di tregua in questo forsennato collage multimediale è costituito dall’innesto a sorpresa di un montaggio silenzioso di centinaia di lapidi, antiche e nuove, macilente e lussuose, ai lati di un’autostrada mortale che, protraendosi inaspettatamente per lunghi interminabili minuti, genera oppressione e disagio nello spettatore.
Se a qualcuno capiterà, tuttavia, come a me, di assopirsi, cullati nel sonno dai movimenti ritmici delle mani sul volante e dai cambi di marcia di Angela, raccomando di non perdersi il tragico e allo stesso tempo farsesco long-take finale a camera fissa di ben quaranta minuti – l’ennesima capriola stilistica – che da solo vale la visione del film.
L’inquietante titolo, mutuato da un aforisma del poeta polacco Stanisław Jerzy Lec, Non aspettarti troppo dalla fine del mondo, sembra suggerirci che l’apocalisse non arriverà all’improvviso, che forse la stiamo già vivendo, come rammenta l’immagine dell’orologio senza lancette con sotto scritto «È più tardi di quello che pensi»: le nostre società sono intrappolate in una spirale discendente perniciosa, cui il potere manipolatorio delle immagini non è estraneo, e ormai non possiamo più sottrarci. Dietro l’apparenza ridanciana e anarchica, questo il messaggio devastante di Radu.
Il cielo brucia del tedesco Christian Petzold è un’altra pellicola che varrebbe la pena menzionare, anche se, per amor di verità, l’avevo persa a Torino e fortunosamente recuperata al Circolo del Cinema. Ma che ve la incenso a fare? L’avete ben vista anche voi, no?
La mia consueta rassegna di Razzie Awards quest’anno è ridotta ad un unico titolo, l’italiano Non riattaccare di Manfredi Lucibello, una sorta di Locke declinato al femminile, con Barbara Ronchi nel ruolo di una donna che deve raggiungere in auto il suo ex compagno che minaccia di togliersi la vita, industriandosi con tutti i mezzi a trattenerlo al cellulare, come suggerisce il titolo, per tutta la durata del viaggio/film. La pellicola ambirebbe a essere un thriller, ma in realtà è un’operazione imbarazzante che costringe la pur brava Barbara Ronchi a destreggiarsi tra dialoghi artificiosi, goffe inverosimiglianze e ingenuità di scrittura, sino a deragliare definitivamente in un finale, liberatorio per lo spettatore, che vorrebbe sortire un climax drammatico, ma è tragicamente e catarticamente ridicolo.
L’incarico di direttore artistico della prossima edizione del Torino Film Festival è stato affidato, non senza le consuete polemiche di natura politica, a Giulio Base, che a mio personale parere è titolato a ricoprirlo in quanto regista e torinese doc, ma soprattutto perché pare abbia dato il suo primo bacio al cinema Massimo, una delle storiche sale del festival (faccina che ride).