Les Quarante coups

I quarant’anni del Festival di Torino

di Marina Fornasari

Ebbene sì, quest’anno il Torino Film Festival fa conto tondo, e, per il  suo quarantesimo genetliaco, il redivivo Direttore artistico Steve Della Casa ha messo a segno qualche novità, come la serata inaugurale nel sontuoso Teatro Regio, sostituendo alla consueta proiezione di un film un incontro, il cui tema era l’intenso rapporto di Beatles e Rolling Stones con il cinema. Presente, tra gli altri, l’indiscussa star di quest’anno, Malcolm McDowell, a cui era dedicata anche una retrospettiva in occasione dei cinquant’anni di Arancia meccanica.

Essendo la prima volta che assistevo a un’inaugurazione del TFF, non so dire se anche il raffinato buffet al termine della serata fosse una novità, ma l’ho gradito in ogni caso. Indovinata anche la creazione di Casa Festival, il centro nevralgico del TFF situato nel suggestivo scenario della Cavallerizza Reale, aperto agli addetti ai lavori e al pubblico con biglietterie, lounge bar e eventi di intrattenimento. Un colpo da maestro sono state le masterclass, completamente gratuite, del wild bunch napoletano (Servillo, Martone, Sorrentino) e di McDowell, mentre i nomi di Giovanni Veronesi, Noemi e Paola Cortellesi suonavano più pop.

Anche quest’anno, se si escludono la retrospettiva western e la nuova sezione competitiva Crazies dedicata all’horror, che non sono esattamente nelle mie corde, mi sono tuffata un’intera settimana con il consueto ardore nella mia kermesse cinematografica preferita, ma forse non ero nella disposizione d’animo migliore, perché in realtà i film mi hanno lasciato un po’ tiepida, li ho vissuti con una sorta di distacco brechtiano che mi ha impedito di abbandonarmi completamente alla magia del cinema.

L’unico che è riuscito a rianimare la mia altrimenti ipertrofica vis empatica è stato l’australiano The Plains. Il regista, David Easteal, ha scritto, recitato, diretto, montato e prodotto un film che attinge alla propria vita reale: i suoi viaggi di ritorno dal lavoro in compagnia di un collega più anziano di nome Andrew, che spesso gli dava un passaggio in auto e con cui ha intrecciato nel corso di un anno conversazioni sempre più intime. Queste chiacchierate sono state semi-drammatizzate e inserite in un ibrido docu-film di ben tre ore, in cui il regista e il collega interpretano se stessi. In metà degli undici viaggi di ritorno rappresentati, Easteal occupa il sedile del passeggero, mentre quando Andrew è solo alla guida attraverso il reticolo urbano di Melbourne, parla al telefono con la moglie, con la madre o ascolta la radio.

Ad eccezione di poche riprese amatoriali con droni sulle pianure evocate dal titolo, Il film è stato girato con un’unica telecamera fissa posizionata nel retro dell’auto, ma, se tre ore sono sulla carta un sacco di tempo da trascorrere imprigionati sul sedile posteriore di The Plains, in realtà, allineando la nostra prospettiva a quella dei due protagonisti, il regista trasforma noi stessi da spettatori in passeggeri, intercettatori privilegiati di un’amicizia che si sviluppa proprio davanti ai nostri occhi: due uomini di età diverse si aprono sulle loro vite, con attenzione e parsimonia, una piccola confessione alla volta, in cui emergono l’amore, la morte, la fuga, un mondo più  interessante e stratificato di quanto le premesse lasciassero intendere. E pian piano questo diventa un lungo viaggio esistenziale, che, lungi dall’annoiare, ci smuove qualcosa dentro perché trova la poesia nella contemplazione disadorna della realtà. Devo confessare che, terminato il film, ho provato una fitta di dispiacere scendendo da quell’auto, anche se non ho mai visto il viso di quei due se non attraverso piccoli scorci dallo specchietto retrovisore.

Passando alla sezione competitiva, per il secondo anno consecutivo la mia scelta ha coinciso con quella della giuria: che stia diventando una vera critica cinematografica? Il film in questione, che merita il premio già per il bel titolo metaforico, Palm Trees and Power Lines, è la versione estesa di un omonimo cortometraggio dell’esordiente americana Jamie Dack. Nella cupa storia di Lea, irrequieta adolescente in un asfittico suburbio americano, che intreccia una malsana relazione con un carismatico predatore sulla trentina, la regista analizza i rapporti di forza nei legami sentimentali e le dipendenze affettive. Di primo acchito, il debutto alla regia non sembrerebbe particolarmente ambizioso, ma il taglio intenzionalmente piatto, senza svolazzi stilistici e colonne sonore ad effetto, lo sguardo come filtrato attraverso una lente opaca, fanno emergere più forte e chiaro l’orrore di questa sordida vicenda di abusi, senza mai sconfinare nella scabrosità o nel compiacimento. In particolare c’è una sequenza, disturbante al limite della sopportazione, tuttavia magistrale: vediamo ciò che accade nell’oscurità granulosa di una camera d’albergo, quasi esclusivamente in campo totale, dalla prospettiva della porta d’entrata; ci sarebbe una via di uscita per Lea, vorremmo aprire noi quella porta per indurla a fuggire, ma possiamo solo assistere impotenti. Il passaggio definitivo della linea d’ombra per questa ragazza è sancito dall’ultima terribile sequenza con un finale interlocutorio senza facili risposte.

C’è poi una gara di bravura tra i due interpreti principali: è straordinaria la naturalezza con cui l’esordiente Lily McInerny che incarna Lea, preda incerta e raggiante, alterna sul suo viso vulnerabilità, ebbrezza, rabbia fredda, disincanto, frustrazione e dolore. L’aitante Jonathan Tucker è spaventosamente sobrio nel ruolo ingrato di questo astuto manipolatore che calibra meticolosamente ogni fase della sua subdola strategia coercitiva.

Questa è solo una tra le numerose pellicole incentrate sul coming of age: dal messicano Un varon al canadese Falcon Lake, fino all’unico film italiano in concorso, La lunga corsa, opera seconda di Andrea Magnani dopo Easy – Un viaggio facile facile, che abbiamo avuto la possibilità di apprezzare al Circolo del Cinema. Il film racconta il percorso di crescita di Giacinto, un giovane candido e un po’ trasognato (l’Adriano Tardiolo di Lazzaro felice, che speriamo si smarchi d’ora in poi da questi ruoli di ingenuo outsider): essendo figlio di due detenuti, è nato e cresciuto in un carcere femminile, dove ormai si sente più a casa che nel mondo esterno, al punto di rifiutarsi di abbandonare il penitenziario, una volta raggiunta la maggiore età.

Nel corso della conferenza stampa Magnani ha spiegato il suo intento di denunciare la situazione dei bambini figli di detenute, costretti a crescere in prigione non avendo altro luogo in cui vivere, optando per un taglio fiabesco e surreale piuttosto che drammatico. Effettivamente, clima sospeso, scenografie antinaturalistiche, personaggi caricaturali che sembrano usciti da Il giornalino di Gian Burrasca, certe inquadrature statiche e inseguimenti rocamboleschi, mi hanno ricordato l’immaginario di Wes Anderson. Ma il calibrato pugno allo stomaco al termine del film, quando lungo i titoli di coda scorrono le desolate facciate di reali case circondariali, ci rammenta che questa favola surreale non è una fiaba, bensì una storia realistica ambientata in un mondo irrealistico. Peccato che buona parte del pubblico, affetto da quella che io definisco “evacuatio praecox”, sia uscito come al solito al primo accenno di titoli di coda, perdendo così anche la dedica a Libero De Rienzo.

C’è un altra tematica che percorre ripetutamente anche a livello visivo questo film: la storia di Giacinto, che cerca testardamente la prigionia perché spaventato dalla libertà finché alla fine spicca il volo verso la vita reale, vuole essere una metafora delle gabbie interiori che impediscono a ognuno di noi di affrontare i cimenti dell’esistenza e di viverla appieno, con tutte le conseguenze che ciò può comportare. A proposito di gabbie mi viene in mente un certo Norman Bates che ammoniva una certa Marion Crane, dicendole «We are all in our own traps». Solo che lui, esattamente all’opposto di Giacinto, invece di varcare la soglia del carcere per lasciarlo definitivamente, ci entrerà per sempre.

Nel comparto attoriale spiccano i due genitori “putativi” di Giacinto: la magnetica gigantessa ergastolana di Nina Naboka e la guardia carceraria di Giovanni Calcagno, sempre superlativo quando c’è da toccare il cuore, come in Paradise – Una nuova vita, sceneggiato dallo stesso Magnani.

All’interno della stimolante sezione Dei conflitti e delle idee, ho visto il controverso e appassionato documentario Lotta continua di Tony Saccucci, che alterna  immagini e filmati d’archivio a interviste di ex militanti più o meno noti. Erri De Luca confida coraggiosamente allo spettatore la sua dolorosa esperienza, ma c’è anche un momento di umorismo involontario quando un inusualmente misurato Giampiero Mughini descrive Adriano Sofri come arrogante e supponente. Qualcuno sostiene che documentari come questi siano «film di ricordi per spettatori immemori, tentativi di ricostruzione di una memoria collettiva», ma il pubblico in prevalenza “di una certa età” –  ehm, la mia – che affollava con me la sala, mi è sembrato ben memore di quella temperie in cui «i ragazzi volevano fare la rivoluzione», come recita il titolo del libro di Aldo Cazzullo, a cui il regista si è liberamente ispirato.

Per quanto riguarda i consueti personali Razzie Awards, quest’anno i miei strali si concentrano su un unico film, Daliland, uno sguardo biografico su Salvador Dalí (Ben Kingsley) e sua moglie Gala (Barbara Sukowa) nell’ultimo decennio della sua vita attraverso la prospettiva di un giovane curatore d’arte di nome James. Nonostante le potenzialità che offriva un personaggio così intrigante, la pellicola non mi è apparsa all’altezza del compito, a partire dalla figura scipita di questo James, classico escamotage di personaggio creato dal nulla per offrire uno sguardo esterno sulle vicende, e che qui sembra fungere più da guida turistica che altro. Il nutrito curriculum di biopic di Kingsley poi, la cui interpretazione di Dalí è mimetica ma sempre a rischio macchietta, mi ha creato delle fastidiose interferenze: avrei preferito un attore meno iconico. La durata del film è sovradimensionata da superflue sequenze di flashback con Ezra Miller nei panni di un Dalí giovane, una performance imbarazzante a metà tra Sandokan e il Sordi di Lo Sceicco Bianco, ma baffuto e in versione slim. L’interprete di Amanda Lear, Andreja Pejić, pur avendo tutte le carte in regola in quanto transgender, non possiede l’allure ambiguo della musa di Dalí, per cui la sua voce cavernosa sembra opera di un ventriloquo.

Tirando le somme di questa operosa settimana al TFF posso dire che, a differenza di altri anni, non ci sono stati picchi positivi né negativi, ma in ogni film ho trovato qualcosa che non mi ha fatto rimpiangere il tempo impiegato a vederlo. E al termine di questo reportage l’auspicio per il TFF è d’obbligo: cento di queste edizioni!