Michael Bay, il Picasso della distruzione
Tra autore e artigiano, la terza via è il regista di Armageddon
di Marco Triolo
Ciascuno di noi ha un regista che rappresenta un po’ la cartina di tornasole dei propri gusti cinematografici. Quel nome che definisce chi siamo per esclusione, oltre il quale non riusciamo a spingerci. Ma c’è un solo nome, nell’industria cinematografica odierna, che accomuna tutti, la cartina di tornasole universale di una e più generazioni: Michael Bay.
Michael Bay è assurto, nel corso degli anni, a emblema di un modo di fare cinema: quello delle “americanate”, come ama definirlo chi ha tutta la filmografia di Wes Anderson in ordine cronologico sulla libreria di casa, accanto a una copia logora de Il cinema secondo Hitchcock di François Truffaut. Una parolina che prende comodamente in causa interi decenni di cinema americano, dagli anni ’80 in avanti. Che sono poi gli anni in cui Michael Bay ha formato quella visione che, ancora oggi, lo rende l’ultimo grande erede del gusto patinato videoclipparo del Tony Scott migliore. E qui casca l’asino: questo è un bene o un male? Michael Bay è… cane o mito?
Flashback. Siamo agli inizi degli anni ’80. Michael Bay sta lavorando come stagista nella produzione de I predatori dell’arca perduta, dove non fa altro che catalogare gli storyboard. Osservandoli, il giovane Michael si convince che il film farà schifo. Poi però lo vede al cinema ed è costretto a ricredersi completamente, e proprio questa epifania lo convincerà a diventare un regista. Curiosamente, questo non è l’unico episodio che accosta Bay a Steven Spielberg (che avrebbe in seguito prodotto i suoi film dei Transformers). Se avete visto The Fabelmans, saprete che il giovanissimo Spielberg era solito mettere in scena disastri ferroviari con il suo trenino giocattolo, e riprenderli con la telecamera Super 8 del padre. Da bambino, Bay fece lo stesso, legando alcuni fuochi d’artificio a un trenino e filmando il risultato. Il Picasso delle esplosioni era sostanzialmente già nato, anche se ancora non lo sapeva.
Dopo aver diretto svariati spot pubblicitari e videoclip, Bay esordisce nel lungometraggio con Bad Boys (1995). Il film si inserisce nel filone del buddy cop, che aveva toccato i suoi apici tra gli anni ’80 e i primissimi ’90. Ma, allo stesso tempo, ne scardina le coordinate spazio-temporali, gonfiando tutto fino al parossismo, bagnando le immagini della luce di un eterno tramonto, feticizzando i ralenti, le camicie sbottonate, i fisici prestanti e oliati. Will Smith diventa una star del cinema, e il resto è storia: da lì, Michael Bay non si sarebbe mai fermato, né si sarebbe mai “venduto”, o normalizzato. Anzi.
Anzi, l’opposto, altrimenti non saremmo qui a parlarne. Dopo aver diretto cult come The Rock e Armageddon, Bay inizia a partire per la tangente. Gliene frega visibilmente sempre meno di realizzare film coerenti e comprensibili, da leggere nell’ottica di un cinema spettacolare “fracassone” (mai termine fu più TV Sorrisi e Canzoni anni ’90), ma, tutto sommato, rassicurante. E proprio qui sta l’inghippo: al cinefilo medio risulta difficile associare commercio e slancio creativo. O fai l’uno, cioè sei un autore, oppure l’altro, cioè sei un artigiano più o meno rispettabile che sforna intrattenimento buono per “spegnere il cervello” (toccherà usare tante virgolette in questo pezzo). La terza opzione, ovvero l’artista estroso che vuole spingere in là ogni possibile definizione di cinema, pur aggirandosi nel giardinetto ben curato dei blockbuster popolari, non è contemplata.
E invece eccola qua, chiara come il sole: Michael Bay ha una testa tutta sua, usa qualunque mezzo possibile per portare avanti la sua visione, ma lo fa raccontando storie di robot alieni giganti e inseguimenti d’auto per le strade di Firenze, coreografati da Jackson Pollock in overdose da MDMA. Non solo si aggira allegramente per quel giardinetto di cui sopra, ma piazza una serie di cariche esplosive e lo fa saltare in aria, solo che alla fine la distruzione è tanto bella e curata quanto il praticello di prima.
Da un certo punto in poi, in particolare durante la saga dei Transformers, Bay ha iniziato a infischiarsene delle regole per crearne di nuove, in un crescendo di sequenze gigantesche ed impressionanti per cura dei dettagli e ambizione della messa in scena. 6 Underground, film da lui diretto per Netflix, vanta una serie di inquadrature che potrebbero essere stampate, incorniciate e vendute come quadri in una galleria d’arte moderna. In Ambulance, sua ultima fatica, si fa direttore di un’orchestra di droni che si muovono e si insinuano ovunque con una fluidità esagerata, mai vista prima.
La parola chiave qui è “esagerata”. È vero, Michael Bay spesso non sa fermarsi. È vero: i suoi film sono spesso scritti molto male, i personaggi sciatti e tirati via, i dialoghi risibili. Ma, proprio per questo, Bay si fa portavoce di una concezione profondamente visuale del mezzo cinema. Questa sua intransigente fedeltà all’immagine ha alienato, e continuerà ad alienare, molti. Eppure è innegabile che Michael Bay sia un Autore: le sue opere sono istantaneamente riconoscibili e nessuno, NESSUNO, gira come lui. Basta vedere il trailer del nuovo Transformers, il primo non diretto da lui, per rendersi conto che quel titanismo esasperato è qualcosa che non riesce a tutti. Dove non c’è Michael Bay, ci sono solo dei normali blockbuster. Dove Bay c’è, spunta il cinema.