Mondi di confine

Paesaggi liminali e spettri di cinema

di Federico Mango

Il termine liminale deriva dal latino limen, letteralmente soglia. La liminalità è dunque un luogo di confine – un nonluogo, come lo definirebbe Augé – una rappresentazione astratta di una transizione, il mutamento di una disposizione. Ma il liminale può avere anche una connotazione materica: luoghi fisici che attraversiamo nella nostra quotidianità, deputati al transito e non allo stazionamento. Non luoghi, appunto, caratterizzati dalla mancanza di identità, scevri da ogni concretezza esperienziale e privi, soprattutto, di una reale possibilità di instaurare rapporti interpersonali al loro interno.

Un luogo liminale è quindi un centro commerciale, un aeroporto e, in misura minore, lo sono un corridoio o una stanza d’aspetto. Per Augé sono simbolo particolare e sintomatico di una postmodernità alienante, e per questo rappresentativi della realtà corrente. Sono luoghi precari, effimeri e massificati, quindi stranianti. Il cinema si è spesso servito di questi spazi per trasmettere sensazioni ansiogene e disperanti, spazi fisici o metaforici veicoli di oppressione e smarrimento.

Tra i casi più celebri, The Truman Show fa della propria topografia un nonluogo eccellente. Truman si trova infatti in una dimensione virtuale, un limbo di stati alterati che non gli permettono di conoscere l’ambiente circostante. La cittadina posticcia dove trascorre la sua vita è l’attuazione di una condanna a un’essenza fittizia, dove schiere di abitazioni e crocevia conformi diventano la perfetta rappresentazione della liminalità come stato sia fisico che psicologico: l’intera esistenza del protagonista è un attraversamento inconsapevole, una scoperta che tarda quanto la sua consapevolezza a determinarsi. Quando l’inganno viene disvelato, la stasi è infranta e l’arbitrio viene ristabilito. Truman può quindi finalmente scegliere, e lo fa nel momento in cui attraversa la liminalità stessa: un varco, la soglia.

Ancora Vivarium di Lorcan Finnegan, dove l’idea di città anonima assurge al suo significato più autentico. Anche in questo caso la liminalità dello spazio influenza la dimensione interiore: la giovane coppia protagonista, vittima di un’integrazione coercitiva, isolata e senza alcuna possibilità di riconoscersi nell’altro, vive una crisi di spersonalizzazione che li porta alla follia – mentre il giovane che devono accudire è incapace di generare pensieri autonomi, così come di immaginare. Quasi unicamente sull’autorità dell’immagine si basa invece A Ghost Story, visto al Circolo nel 2018, il film liminale forse più distintivo nel significato proprio del termine. L’ectoplasma C, esso stesso un nonluogo, attraversa e viene attraversato da infiniti tempi e spazi, che lo avvolgono senza mai integrarlo. Ovunque si trovi, non gli è dato di stabilirsi. Quello dello spirito è infatti lo stato di estraneità più disgraziato: impossibilitato a vivere, non può morire. Fallimento di presenza, lo chiamerebbe Mark Fisher.

Questo fenomeno è sempre stato presente e attenzionato nel cinema postmoderno, perché espressione autentica di un’epoca precisa, dove elementi come la solitudine e lo straniamento trovano il loro esatto corrispettivo in enti fisici e locativi: le interminabili corse notturne in Taxi Driver, scale di centri commerciali e corridoi vuoti in alberghi funerei ne Le conseguenze dell’amore, gli stessi corridoi melanconici attraversati da Bill Murray e Scarlett Johansson in Lost in Translation. I mondi digitali di Videodrome, Matrix e Inception, manifesti dell’estetica postmoderna, dove il soggetto, scorporato dalla propria identità, ne vive una nuova, menzognera ed artefatta, in una sospensione irrisolvibile.

La pandemia – che ci ha costretti a vivere e osservare la liminalità nella pienezza della sua tragicità – assieme ad alcuni fenomeni nati in rete, come quello delle backrooms, hanno alimentato un sempre maggiore interesse per la materia, accrescendone però l’angoscia e l’inquietudine. Truman per superare il suo stato di “insolutezza” attraversa una porta. Lo spettro di C, quando finalmente riesce ad interrompere il ciclo dell’eterno ritorno, scompare e termina il suo tempo sulla terra.

Ma nell’esordio di Kyle Edward Ball, Skinamarink, le porte scompaiono, il tempo si dilata fino all’infinitezza e nessun confine è più valicabile. I protagonisti sono irretiti in un incubo analogico perenne nel reiterarsi sotto la sua forma di irreale staticità. Se il nonluogo è uno spazio transitorio dove folle numerose sono dissociate dall’ambiente in cui si trovano, la casa è invece il luogo a cui pensiamo come rifugio, riparo sicuro dall’esteriorità che spesso ci angustia. In casa instauriamo rapporti, ci identifichiamo e originiamo ricordi. La casa è quindi il luogo. Un riferimento, una direttrice precisa. Ball sovverte questa certezza e sottrae le coordinate. La semantica degli oggetti cambia continuamente e gli spazi comuni, come il soggiorno o la camera da letto, luoghi deputati alla comunione, diventano qui vuoti incolmabili, infestati dall’assenza. Il luogo perde le sue caratteristiche fino a diventarne il suo opposto, la nuclearità – della famiglia, della percezione – diventa spazio liminale. L’oblio e la vacuità che occupano e deturpano il nostro ultimo conforto. Così Skinamarink si fa voce di una tendenza sempre più attuale: l’orrore per l’indeterminatezza, dove non c’è più nessuna soglia da attraversare, perché non ci sono più posti dove nascondersi.