Naufragi e multiversi
Daniels, directing duo al prezzo di uno
di Marika Zandel
Ebbene sì, è proprio quel mese. La leggenda vuole che Margaret Herrick abbia detto che la statuetta, una volta forgiata, assomigliasse tanto a suo zio Oscar ed ecco fatto. Quella frase ha messo d’accordo tutti e da novantacinque anni a questa parte l’industria è sempre più fedele al nome che si è data, cercando di non far litigare nessuno (per quanto possibile, saluti a Will Smith) e unendo l’utile al dilettevole, la politica all’estetica, l’industria più pop all’arte più snob.
Risulta sempre più difficile stringere assieme delle cose che spesso di stare assieme non ne hanno voglia, sbagliato o giusto che sia, ma questa è un’altra storia.
Dopo la piccola rivoluzione di Parasite, le Venice vibes di Nomadland e Coda, che di certo non aveva bisogno dell’Academy per essere dimenticato da tutti, a mettere d’accordo i voti potrebbe essere proprio Everything Everywhere All At Once con Daniel Kwan e Daniel Scheinert alla regia, per gli amici i Daniels. Tutto può ancora cambiare, ma undici nomination sono un bel fardello da portare e il film ha quegli ingredienti che tanto potrebbero piacere a zio Oscar: una morale a volte un po’ troppo didascalica (letteralmente! La scena delle pietre) e quella follia visiva che strizza l’occhio a tutti
Nonostante un film come Everything Everywhere sia a tratti fin troppo furbo, ai Daniels, che si uniscono artisticamente sotto un unico nome, non si può non riconoscere un’abilità singolare nel maneggiare l’immagine e il divertimento puro che ne consegue.
Nel 2016 i due esordiscono con Swiss Army Man e già si intuisce come vogliano piegare le regole della realtà a quelle del cinema. Nel lungometraggio presentato al Sundance, tutto il comparto visivo possedeva la sceneggiatura e ne esercitava il controllo. Certo, in modo più essenziale di EEAAO, ma forse per questo il risultato rimaneva qualcosa di più sofisticato, un gioiellino in cui Paul Dano dà gran prova di sé e in cui scopriamo che Daniel Radcliffe recita meglio da morto, se è un cadavere.
Qualsiasi effetto, qualsiasi personaggio, qualsiasi corpo sotto la loro regia si piega come gomma e scivola in un tritacarne che va, prima di tutto, a ritmo di musica.
Il directing duo, infatti, nasce sotto il segno dei videoclip ed è la ricerca spasmodica del movimento dell’immagine legato al suono la loro cifra indistinguibile. Non importa di quale materiale siano fatte le cose, di quale carne siano fatti gli uomini, è tutto attraversato da un’energia bulimica che prende quello che più ci aspettiamo e lo risputa fuori montato al contrario, pur sempre mantenendo invariato quello che vuole veicolare.
È il momento in cui Evelyn, la protagonista di EEAAO, fra le infinite esistenze del multiverso si riscopre cantante, che sembra prendere ancora di più coscienza dei propri poteri; è quando si fa viva la colonna sonora di Swiss Army Man che i corpi di Dano e Radcliffe si animano aderendo a qualsiasi cambio di musica e riscoprendo così i loro sentimenti.
Corpo e mente sono una cosa sola e in ogni loro lavoro si uniscono per combattere, attraverso soluzioni grottesche ed eclatanti, dei drammi personali. Il multiverso, movimenti di macchina nevrotici e slow motion a volontà vengono scomodati non perché è in pericolo l’umanità tutta, ma perché è in pericolo il mondo interiore del protagonista. Soluzioni folli per qualcosa che spesso è insignificante, ma solo in apparenza.
Lo sa bene il gruppo statunitense Foster The People che vede al timone i Daniels per la regia di due videoclip (Houdini e Don’t Stop, 2011). In Houdini tutti e tre i musicisti rimangono schiacciati dalle luci durante le prove del concerto per il giorno seguente, un gran peccato. Mica tanto, però. Arrivano i Daniels – che vediamo davvero nel video mettersi le mani nei capelli al momento del fattaccio – e sistemano la situazione con un gioco di prestigio, mostrando tutti i trucchi. Ci penseranno degli omini in tuta green a muovere come marionette i tre poveretti che il giorno dello show avranno la bocca in lip sync e saranno comunque dei ballerini favolosi sul palco.
Qui c’è già quello che ci sarà nel film d’esordio: i Daniels animano tutte le cose morte e lo fanno benissimo come fosse la loro filosofia fare dell’inerte qualcosa di dinamico. La musica per cui i due registi girano i videoclip, però, ha qualcosa in più che non va ricercato nel timing perfetto con cui un brano si fa coincidere col montaggio (vedi Baby Driver di Edgar Wright), bensì direttamente nelle membra dei protagonisti e di qualsiasi oggetto di scena.
Il video dei The Shins per Simple Song (2016) che sembra racchiudere l’attitudine dei registi: un padre muore, ma il cadavere è più vivo che mai e scatena una caccia al tesoro dell’eredità che porta solo a un messaggio d’amore (o quasi).
Foster The People, The Shins oppure gruppi come Chromeo e Passion Pit: Kwan e Scheinert si muovono sempre in zona indie-pop/elettro-pop, aree in cui difficilmente qualcosa è sottotono e dove il dance floor è dietro l’angolo. Eccezione fatta per la rockettara Rize of the Fenix (2012) dei Tenacious D. (sì il gruppo di Jack Black).
Tutto, ma proprio tutto, si deve muovere e diventare un elemento potente, così come ballare non è mai solo puro coinvolgimento per i protagonisti del videoclip di Turn Down For What (Dj Snake, Lil Jon – 2013), ma è quasi assoggettamento a parti del corpo che mai avremmo creduto potessero ballare.
Ogni cosa, ovunque, tutto insieme. Funzionerà questa formula agli Oscar? Sicuramente è più efficace e vincente quando i Daniels devono condensare tutto in qualche minuto di videoclip.
Tongues (2014), video musicale per i Joywave, fra tutti è il più magnetico. Un gruppo di uomini e donne corrono nudi e felici nel bosco e ad attenderli, fra gli alberi, pronti a sparare, alcuni uomini (vestiti però) che vogliono contrastare a tutti i costi questa libertà dei corpi. Il modo in cui lo fanno è singolare e il sound infonde di movimento la trama dell’immagine che diventa musica per gli occhi.