NICK CAVE IN 3D

Oltre la felicità, la tristezza e i completi eleganti

di Marika Zanadel

A Blonde (2022) non è bastato l’impegno di Ana de Armas e non sono servite le polemiche che lo vorrebbero sessista e antiabortista: è rimasto a bocca asciutta, compiendo un viaggio dal Lido agli States piuttosto in sordina. Andrew Dominik finisce per impagliare Marilyn Monroe in uno sforzo estetico inutile e pecca nel conoscere fin troppo quello che gli riesce bene: ritrarre chi è rotto dentro. Il gioco non decolla, non perché intrappolare la diva nel corpo di Norma Jeane bambina sia un’idea da poco, ma perché pare che il regista debba riempire, col virtuosismo dello sguardo, delle crepe che stavano meglio così com’erano.

Forse non funziona bene l’adattamento del romanzo o forse basterebbe un occhio più crudo, quello che ci ha fatto conoscere Dominik con l’esordio Chopper (2000) e che funziona come un sortilegio nei due documentari dedicati all’artista australiano Nick Cave. Ma che dico, al Re dallo sguardo torvo coi completi e i mocassini.

One More Time with Feeling (2016) è un affresco nudo in cui la scelta del bianco e nero acquista un senso e le immagini vivono un rapporto simbiotico con la creazione del suono. Il nucleo è la realizzazione di uno dei lavori più famosi di Cave and The Bad Seeds, Skeleton Tree, che è a sua volta il succo di uno dei dolori più innaturali, la perdita di un figlio. Di questo dolore proibito non ci viene dato in pasto nulla: la macchina da presa riprende gli artisti e gli strumenti a trecentosessanta gradi, da qualsiasi angolazione, addirittura passando attraverso i corpi (vizietto presente anche in Blonde e che si rivela scivolosa buccia di banana), ma non vediamo più di quello che già c’è. Il sortilegio si compie nella semplicità di un documentario nel documentario: si filma chi suona e chi canta, ma si filma anche chi filma. Il risultato (elegantissimo e ad arte) è che il making of del film diventa il film stesso, ma si distacca da un semplice backstage perché c’è un Cave fuori campo che racconta cose e ce n’è uno al piano che ne canta altrettante.

«Women are like fucking 3D» dice lui e Dominik cerca di dimostrare a tutti i costi quella plasticità che l’artista dice di non avere, facendo girare la regia attorno a lui in modo spasmodico, come a modellare un vaso di ceramica.

Riparte da qui This Much I Know To Be True (2022) e si ripresenta con la stessa struttura che il regista aveva accennato sei anni prima. La differenza sta nel bianco e nero che scompare per lasciare posto ai colori e a un Nick Cave apparentemente immutato. Solo apparentemente, perché se c’è una cosa che sa fare Andrew Dominik è registrare le piccole frequenze con cambi di fuoco e una fotografia cremosa. C’è più musica che racconto e il flusso creativo dell’artista australiano sembra correre in modo più liscio, mentre l’occhio della regia è interessato a far emergere delicatamente il rapporto quasi fraterno col compositore Warren Ellis: li vediamo muoversi percorsi dalla musica, punti da una taranta che sembra l’ultimo rituale di spensieratezza prima di una seconda tragedia che colpirà il cantante lo stesso anno.

Fino ad allora siamo sospesi fra la creazione di tracce indimenticabili per gli album Ghosteen e Carnage, mentre il cantante dei Bad Seeds ci fa sapere che ha imparato a lavorare la ceramica. Il desiderio di plasmare in tre dimensioni qualcosa dal nulla, dà forma anche a una serie di statuette che ritraggono i diversi momenti della vita del diavolo che Cave ci racconta. Curiosi, noi seguiamo la storia che finisce troppo in fretta e che ci fa capire come l’artista (e di conseguenza Andrew Dominik) operi con il proprio lavoro, creando una musica che finisce per essere la statuetta solida dei suoi demoni, oppure di quelli di qualcun altro.

L’incontro di Nick Cave con le immagini in movimento non esiste solo con questi due documentari, anche se il sodalizio col regista è stretto tanto da regalare a Blonde una delle poche cose buone del film, la colonna sonora. Il Re Inchiostro e Warren Ellis compongono la soundtrack di Wind River (2017) e del successo Netflix Dahmer (2022), per citare i più conosciuti, ma anche di diamanti più grezzi come Mustang (2015), in cui c’è lo zampino di Ellis.

MUBI offre la possibilità di recuperare One More Time With Feeling e This Much I Know To Be True, che vanno visti non solo perché viene a mostrarsi Nick Cave nella sua interezza, ma ancora di più. Nel secondo documentario Andrew Dominik non ha bisogno di farci passare attraverso i corpi, basta una domanda che il cantante legge dai Red Hand Files, lo spazio virtuale creato dopo la perdita del figlio Arthur per ricevere dal mondo messaggi di chi vive situazioni simili: «I’m curious, behind it all, the music, the words, the suits, the grief, the tenderness and shame and guilty and joy, who are you?»[1], chiede Kev dall’Irlanda.

Il ragazzo vuole spogliare il Re ancora di più e lui acconsente, senza preoccuparsi della distinzione fra artista e persona, che ha abbandonato ormai da un po’…

[1]«Sono curioso, al di là di tutto, della musica, delle parole, dei completi, del dolore, della tenerezza e della vergogna e della colpa e della gioia, chi sei?» (trad. della redazione)