
No sex, better sex!
Anorgasmie pandemiche veneziane
di Riccardo Chiaramondia
Adorno, con pessimismo, sosteneva che non fosse più possibile fare poesia dopo Auschwitz; e il cinema dopo il Covid? Cinema sì, ma per un po’ scordatevi di vedere del sesso.
A settembre 2021 ha preso vita la settantottesima Mostra del Cinema di Venezia, ovvero la prima edizione totalmente condizionata dalla pandemia. Se è vero che già lo scorso anno l’organizzazione fu turbata dalle ben note vicende sanitarie, altrettanto non si può dire per le opere presentate. La lunghezza dell’iter produttivo di un film, del lavoro di selezione e il blocco dei set dettato dalle misure restrittive adottate in quasi tutto il mondo non hanno permesso che il Covid entrasse a pieno nelle pellicole; due eccezioni sono state Molecole di Segre e Sportin’ Life di Abel Ferrara, documentari che, essendo in corso di realizzazione allo scoppio della crisi, hanno visto la contingenza invadere inevitabilmente la narrazione.
È quindi interessante ragionare sulle implicazioni che la pandemia ha avuto sui film selezionati nell’ultima edizione: bisogna sempre tenere conto, in un’analisi di questo tipo, che le pellicole in un festival seguono una linea editoriale, più o meno esplicita. In un contesto come quello veneziano, dove il cinema presentato dovrebbe essere simbolo di un’arte intenta a riflettere su stessa e sulla contemporaneità storico sociale, ci si sarebbe potuti aspettare un’ingente presenza del tema Covid nelle pellicole: così però, apparentemente, non è stato. Su quasi 150 film presentati, soltanto tre documentari, La Biennale di Venezia: il cinema al tempo del Covid, Isolation e Le 7 giornate di Bergamo, spesso relegati in posizioni secondarie della programmazione, e tre opere di fiction, un corto, Preghiera della sera, e due lunghi, Shen Kong e Pubu, trattano la tematica.

Prendendo in considerazione gli ultimi due titoli si può notare come la pandemia non sia che uno sfondo: non c’è, se non tangenzialmente, un’analisi delle sue implicazioni ed è soltanto il motore per l’avvio di altre vicende, in entrambi i casi un rapporto duale disfunzionale. Risulta emblematico che in Pubu la coppia protagonista sia formata da madre e figlia. È infatti la maternità, declinata sempre in toni drammatici, in conflitto con la prole o assente, il grande fil rouge di questa Mostra. Sono almeno venti i film su questo tema, sicuramente il più trattato e in netto aumento rispetto alle precedenti edizioni, ma, tranne alcune ottime eccezioni come Cenzorka, appaiono poco riusciti; è però evidente in essi un senso di urgenza, un bisogno di raccontare subito, quasi istintivamente, senza mediare troppo con la forma, per dar vita a quelli che appaiono come degli sfoghi, è questo il caso di Vera andrron detin. È interessante riflettere sul perché, proprio in questo momento, si sia riscontrata una necessità così diffusa e impellente.
Abbandonando il cinema e pensando ai culti primordiali, è facile notare come una delle divinità più diffuse fosse la Madre Terra, incarnata nella figura della Grande Madre, propagatasi poi, con diversi nomi, nelle civiltà successive, dagli etruschi agli inca, e di cui alcuni echi sono riscontrabili anche nella Vergine Maria. Si pensi inoltre allo shintoismo con la concezione di natura come endogena e divina. Generatività, laddove maternità potrebbe non essere del tutto corretto, e natura sono inscindibili, tanto da assumere un forte valore metaforico attraversato i secoli. Lo possiamo riscontrare nel De rerum natura di Lucrezio come nella poetica di Leopardi, nella sigla de I Puffi come in Mother! di Aronofsky o in Mother Lode, docufiction presentata proprio quest’anno a Venezia: è così permeato in ogni strato della nostra cultura da influenzarci inconsciamente. Se allora parlare della pandemia, della vita e della natura apparentemente ostili che mettono in ginocchio l’uomo, e rappresentarla esplicitamente è ancora troppo doloroso, ecco che l’antica metafora viene in soccorso: in questa Venezia i film hanno mostrato il Covid pur tacendolo e, forse, non sempre per intenzione conscia degli autori.

In questo contesto dominato da maternità sofferenti, dal tentativo della rimozione della pandemia e dal senso di morte, non c’è spazio per la positività e la vitalità: non si ride, con l’eccezione di Competencia oficial, e non si fa sesso. L’atto generativo e l’eros come gioia non hanno diritto di cittadinanza e, infatti, le poche volte che appaiono degli amplessi sono asettici, quasi insensati, come in Kapitan Volkogonov bežal, o ottenuti con la violenza come in Shen Kong e nella lunga scena di stupro di La ragazza ha volato. Da sottolineare però, in controtendenza, la presenza de La dernière séance di Gianluca Matarrese, documentario dolce e profondamente umano sulla vita del sessantatreenne Bernard e il suo rapporto con il mondo BDSM, e Plastic Semiotic di Radu Jude, un corto in stop motion che utilizza dei giocattoli per ripercorre tutte le fasi della vita umana, ipersessualizzandola in modo ludico.

Il calo del sesso rappresentato al cinema è, però, un fenomeno di più ampio respiro, in corso da almeno un decennio e le cui cause prime sono antecedenti allo scoppio della pandemia. Un articolo di novembre de «Il Post» riporta una ricerca secondo cui solo l’1,21% dei film usciti tra il 2010 e il 2019 contiene scene di sesso: questo dato è il più basso dagli anni Sessanta ed è ancor più impressionante se paragonato all’1,79% degli anni Novanta. Le motivazioni ipotizzate dall’autore sono molteplici, non è però intenzione di questo articolo andare ad analizzarle, quanto più contestualizzare il caso Venezia 78 nel suo più ampio scenario e sottolineare come le tendenze evidenziate potrebbero andare ad accentuare il fenomeno in atto.
Non bisogna però escludere che, una volta usciti da questa emergenza, ritrovando un nuova vitalità e riappropriandoci di un rapporto più sereno con il contatto e la fisicità, la tendenza possa invertirsi di segno. Sperando di scoprirlo presto.