Onda anomala

Il cinema imprendibile di Jacques Rozie

di Luca Romeo

Fermi tutti: dobbiamo parlare di Jacques Rozier. Dico a voi, cinefili innamorati della Nouvelle Vague francese e che siete cresciuti a pane e Antoine Doinel che scappa dopo una marachella, pane e primissimi piani di Anna Karina, pane venduto da giovani fornaie nel quartiere parigino di Monceau, pane e Cléo che vi tiene compagnia all’ora dell’aperitivo serale. Non vi sembra che manchi qualcosa o, meglio, qualcuno? Dopo un po’ che sgranocchiate la vostra baguette (buona eh…) non avete la sensazione che possiate scegliere un ulteriore companatico da gustare dopo le scorpacciate precedenti? Benissimo, andate al supermercato più vicino, pardon, cineteca e auto-identificatevi con la parola d’ordine del giorno: Jacques Rozier. A questo punto, al vostro cineclub riconosceranno l’animale strano che siete: il lupo cinefilo stufo dei soliti noti (Truffaut, Godard, Rohmer, Varda… perdonatemi!) e desideroso di aggiungere un tassello a questa nuova onda transalpina.

Rozier, innanzitutto, è un personaggio. Regista, sceneggiat- …no, sceneggiatore no, ma soprattutto scapigliato idolo del Godard giornalista, è stato uno di quegli artisti che vengono ricordati oltre che per le loro opere, anche per come le hanno portate a termine. O per come non l’hanno fatto. Le leggende cinefile che riguardano il cineasta parigino partono proprio dalle sue non-sceneggiature: pare che il buon Jacques, poco più che trentenne, dopo due buoni cortometraggi fosse pronto per il grande salto, il lungo che lo avrebbe consegnato alla storia. Badate bene, siamo a cavallo tra gli anni 50 e 60, la coppia d’assi Truffaut-Godard è in rampa di lancio, Rivette e Rohmer stanno sorgendo splendidi splendenti, Chabrol ha già un Orso d’oro in saccoccia, Varda ha girato La Pointe Courte. Rozier, che aspetti? Gli dèi ti guardano e sulla cima dell’Olimpo c’è uno scranno vuoto per te!

Et voilà, torniamo a quel lungometraggio a forma di chiave d’accesso al regno dei cineasti immortali: si intitolerà Adieu Philippine – tradotto in Italia con un ben più banale Desideri nel sole, meglio non commentare – ed è sponsorizzato niente meno che da Jean-Luc Godard in persona. Ai tempi Godard è “solo” un critico cinematografico, ma è proprio grazie a un suo articolo che Rozier si impone con “il film più fresco” del Festival di Tours. E sarà sempre Godard a presentargli il produttore Georges de Beauregard, con quel cognome che ricorda Henry Fonda nel western epico Il mio nome è Nessuno, ma che al contrario dell’omonimo porta un nome che è davvero qualcuno e che qualcuno: Beauregard è un gigante della produzione francese di quegli anni.

 

A proposito, siamo nel 1960 e l’amico comune è appena diventato il regista più apprezzato d’Europa grazie a quel capolavoro di À bout de souffle, a Rozier non resta che presentare al benefattore di turno la sceneggiatura del film. Eccolo qua, il nostro timido eroe che non vuole snaturarsi: il fatto è che Rozier non ama sceneggiare i suoi film, lui ha un’idea in testa, prova a metterla giù con i suoi attori, accende la cinepresa e vede che cosa succede. Fine della sceneggiatura. Immaginiamo il caro Beau (chissà se Rozier, in amicizia, lo chiamasse così) con un principio di maledizioni da lanciare al nuovo regista e a quell’altro che li ha fatti conoscere, ma che non demorde: il soggetto è bello e il film si farà.
Ma non ha fatto i conti con lo scapigliato regista: parte del film va girata in Corsica, su cucuzzoli raggiungibili solo tramite carrarecce, spesso inaccessibili senza l’aiuto di un mulo che aiuta a trasportare strumenti e persone. Noi torniamo a immaginare Beau: il suo portafogli si svuota e la sua pazienza arriva al limite, anche perché Rozier ci mette un anno intero per lavorare al primo montaggio. Ma un vaso di quel calibro ha bisogno di ben più di una goccia per traboccare, Beauregard ha fiutato il capolavoro e non molla. Così, il regista decide che non sarà la classica goccia a cancellare il produttore dalla sua vita, ma una cascata di problemi e imprevisti che non lascerebbero scampo neppure al più santo tra i finanziatori: a fine montaggio salta fuori che Rozier ha completamente perso l’audio del film e che per ricostruirlo sta leggendo il labiale di ogni battuta.

È troppo perfino per San Georges, il produttore abbandona il nuovo amico e il futuro astro nascente della Nouvelle Vague parigina è di nuovo fermo. Che fa dunque il nostro eroe? Chiede soldi ad amici, parenti, conoscenti, passanti, compra i diritti del film e se lo produce sa solo, mentre nel frattempo siamo arrivati nel 1962. L’opera arriva clamorosamente a Cannes e viene clamorosamente premiata alla prima edizione della Semaine de la critique.

E allora perché la sua carriera non decolla? Perché nonostante due capolavori, il medio Blue Jeans e il già citato Adieu Philippine (ehi, trovate entrambi su MUBI!) non è facile lavorare con un regista che non scrive le sceneggiature, è a suo agio su un set anarchico e rifiuta di imporre le sue idee agli attori ed è totalmente scollegato dal concetto di tempo. Gira alcuni documentari, pochi film di finzione osannati dalla critica, ma lontanissimi dal pubblico – pare che il film successivo, uscito ben undici anni dopo, sia rimasto nelle sale francesi solo per una settimana – e scompare quasi centenario nel 2023. Il successo è arrivato solo in parte, ma del resto, come dice uno dei suoi primi personaggi: «Nell’era della bomba atomica, nulla ha importanza». Figuriamoci la gloria, per uno degli spiriti più liberi della storia del cinema.