Orfeo e la chimera
Fili rossi nel cinema di Rohrwacher
di Chiara Zuccari
Dopo il passaggio all’ultimo Festival di Cannes – vero lido connaturato al cinema della regista italiana – e quello all’ultima edizione della Festa del Cinema di Roma, il 23 novembre scorso Alice Rohrwacher ha finalmente portato nelle sale italiane il suo ultimo film, La chimera, accompagnato da uno sporadico tour nei cinema della penisola, nonostante le iniziali difficoltà distributive che il film ha incontrato, portate all’attenzione del grande pubblico grazie a un video – divenuto virale – girato dal protagonista Josh O’Connor insieme alla stessa Rohrwacher e fatto circolare sui social per sollevare la questione.
Come il precedente Lazzaro felice, al quale hanno fatto seguito i cortometraggi Omelia contadina, Quattro strade, Le pupille (arrivato in corsa ai Premi Oscar, forte della produzione di Alfonso Cuarón e della distribuzione Disney+), e il documentario collettivo Futura, co-diretto con Pietro Marcello e Francesco Munzi, anche quest’ultimo lavoro è un’altra storia di fantasmi e vagabondi, personaggi bislacchi, quasi circensi, saltimbanchi in equilibrio precario sul filo rosso dell’esistenza, in sospeso tra la vita e la morte, tra il visibile e l’invisibile, alla ricerca di una ricchezza perduta, o forse addirittura mai esistita. Un sogno, un’utopia di felicità che sembra irraggiungibile, una pacificazione all’apparenza impossibile. Rohrwacher assume di nuovo lo sguardo fanciullo, scevro da malizie, curioso sul mondo e pronto a scoprirne e accoglierne le meraviglie, per indagare le radici identitarie e le trasformazioni dei luoghi – quelli della Tuscia – a lei cari.
La chimera racconta la storia di un gruppo di tombaroli, predoni improvvisati di antiche sepolture etrusche, capitanati dall’inglese Arthur, allampanato e malinconico, alla ricerca del tesoro più prezioso tra tutti, l’amata e perduta Beniamina. A completare questo quadro pittoresco, Isabella Rossellini nei panni di Flora, matrona decaduta dal cuore generoso, e Italia (l’attrice brasiliana Carol Duarte), che a dispetto del nome arriva da lontano, e, come le reliquie occultate sotto il terreno, nasconde un segreto. O forse più d’uno.
Eppure, stavolta Rohrwacher sembra inciampare in una programmaticità troppo esibita, che dilaga in formalismi ridondanti (come la macchina da presa che si capovolge ogniqualvolta Arthur va in trance), e soluzioni didascaliche, come le sequenze a bordo del lussuoso yacht o l’inseguimento sotterraneo di quel fil rouge che è al tempo stesso un filo di Arianna di mitologica memoria, e il filo di un destino inesorabile e oscuro, che Arthur abbraccia con disincanto. Come un antico eroe greco mosso dalle mani del Fato, Arthur è un moderno Orfeo che insegue la sua Euridice nel regno dell’oltretomba. Non a caso i capitoli del film sono scanditi proprio dall’Orfeo di Monteverdi.
Tutto il film è permeato da un velo lieve di antica tristezza che è al contempo una profonda consapevolezza sulla verità del mondo – qui come non mai, un mondo degli uomini più che degli dei – alla cui meschinità Arthur oppone una purezza d’animo che investe tutto il film, delicata e genuina, eppure adombrata da una tristezza immemore che porta inevitabilmente alla ricerca di una salvezza eterna che sembra essere possibile solo nell’incontro col femminile.
Torna anche in questa pellicola il tema del progresso in conflitto con la realtà rurale. Ma se nei lavori precedenti era incarnato da uno sguardo a metà tra realismo magico e documentario etnografico, qui si trasmuta in epica mitologica, tramandata oralmente dai cantastorie, che sopravvive al passare del tempo. Arthur dunque più che a un Lazzaro (in)felice, assomiglia al Luciano protagonista di Re Granchio di Matteo Zoppis e Alessio Rigo de Righi, presentato anch’esso a Cannes nel 2021 e ambientato in Tuscia. E allo sguardo rivolto costantemente verso il basso, verso un suolo polveroso e oscuro, custode di un tempo e di vite passate, Rohrwacher oppone slanci di macchina che inducono lo sguardo verso il cielo, lungo i rami nodosi e sbilenchi degli alberi. Traiettorie esistenziali imprevedibili, che trovano un punto d’incontro in un linguaggio emotivo comune, riconoscibile e universalmente comprensibile, in un gioco di sguardi e gesti che avvicinano le anime prima dei corpi.