Per aspera ad Astra
Sale che aspettano, nel buio
di Francesco Lughezzani
Ricordo ancora quale fu l’ultimo film proiettato al Cinema Astra nell’estate del 2004, l’anno in cui la sala chiuse per portare a termine alcuni lavori di ristrutturazione. I diari della motocicletta di Walter Salles, interpretato da Gael García Bernal nel ruolo di Ernesto Guevara de la Serna, uscì a fine maggio: fu la pellicola con cui decenni di attività giunsero a compimento. La sua locandina svettava nel muro laterale dell’ingresso, sulla destra, e ogni volta che passavo davanti a via Oberdan 13, nei mesi e poi negli anni successivi, quell’immagine mi ricordava un’assenza malinconica. Rimase lì per molto tempo, ogni anno sempre più sbiadita e consumata dal passare dei giorni e dalle stagioni, fino a ridursi a una minuscola traccia, un angolo di carta e colla ai margini del muro. Ripensando al tempo trascorso seduto al buio tra le sue file, ogni volta che guardavo la sua facciata mi illudevo che finché fosse rimasta anche solo una particella di quella carta sulla parete, a testimonianza di ciò che era stato, sarebbe rimasta anche solo una possibilità, pur remota, che il cinema potesse rinascere e riprendere a proiettare.
Sotto l’edificio, dallo stile architettonico razionalista tipico del Ventennio, i lavori di scavo per costruire un piano interrato avevano subito svelato – a inizio autunno – i resti di strutture di epoca romana e di una mansio, una stazione di posta pubblica che sulla via Postumia offriva ospitalità a passanti e viaggiatori. D’altronde siamo a due passi da Porta Borsari, pochi metri fuori dalla cinta più stretta e antica di ordini murari che circonda il centro storico. Sono passati anni da quando anche l’ultimo scampolo di quella locandina è svanito, ma proprio in queste ultime settimane si sono visti operai entrare e uscire da uno dei tre ingressi. Erano ancora i giorni dei cinema e teatri chiusi, delle sale costrette a fermarsi dall’emergenza pandemica e proprio in quel momento trapelavano notizie, ancora molto vaghe e contradditorie, sul futuro dell’immobile, legato a una destinazione d’uso commerciale.
Sono molti i cinema chiusi o sospesi a Verona e fra questi l’ultimo di cui abbiamo avuto notizia è l’Alcione, in quartiere Santa Croce: non sappiamo ancora se la situazione potrà tornare a una normalità sempre più insolita e proprio per questo abbiamo deciso di avventurarci in una ricognizione storica e soprattutto fotografica che possa costituire un compendio archeologico-cinematografico fatto di muri, pareti, tracce quasi dimenticate di una memoria visiva più ricca di quanto si possa pensare, in un periodo in cui il ruolo della sala è al centro del dibattito sul futuro del cinema. Questo articolo è solo il primo capitolo di una ricerca che troverà spazio nelle pubblicazioni del prossimo anno sociale e per scriverlo abbiamo incontrato Lorenzo Linthout, architetto veronese che nel corso dell’ultimo decennio è entrato in alcuni dei cinema dismessi e li ha documentati con le sue foto, scoperte nel suo portfolio digitale dopo una prima ricognizione sull’argomento, e pubblicate a corredo di questo articolo. «Il mio ingresso al Cinema Astra è avvenuto in una piovosa domenica mattina di qualche anno fa» ci racconta «Entrare in un ambiente deserto di vaste dimensioni, fino a pochi anni prima ritrovo per momenti di svago, mi ha dato la possibilità di osservare con occhio più attento il cinema, i suoi spazi, senza alcuna distrazione. Le persone, le voci animate, i suoni dei film presenti in passato, erano sostituiti dal silenzio, spezzato solo per qualche istante dal volo di alcuni colombi entrati all’interno dello stabile. Tutto era estremamente silenzioso e solo la mia ombra – poco contrastata per via della fioca luce presente – vagava in questi ambienti, diventati ormai estranei al pubblico». Le fotografie ci permettono di ricordare gli spazi un tempo adibiti alla vasta platea, la galleria, la regia e gli ambienti attigui alla sala – che negli anni di solitudine hanno acquisito l’aura di reliquie decadenti. L’atmosfera lynchana che si percepisce nella cabina di proiezione non fa che acuire il senso di perdita di fronte a ciò che poteva essere e che non ha trovato alcuna via d’uscita per fuggire all’implosione dell’incuria. Eppure la destinazione ad un uso commerciale, come fu per il Marconi che ora sparge profumo soffocante in tutta via Mazzini, è un esito anche più ingiusto di una chiusura prolungata.
A pochi metri di distanza, in via Quattro Spade, c’è un altro cinema che da molti anni aspetta una riapertura che pare non arrivare mai. Il Corallo, che occupa Palazzo Dolci Della Torre, è una sala realizzata negli anni Cinquanta che poteva ospitare fino a un migliaio di spettatori e che mantiene ancora oggi intatto il suo fascino originario. Il Palazzo che lo ospita rappresenta l’unico progetto di Andrea Palladio realizzato nel centro veronese. Il celebre architetto patavino lo disegnò su commissione di Giovanni Battista Della Torre e venne poi edificato tra il 1555 e il 1568 – non rispettando del tutto il progetto originario. «Ho avuto l’occasione di poter visitate il Cinema Corallo nel 2010, grazie ad un’iniziativa promossa dall’Ordine degli Architetti e dall’Ordine degli Ingegneri della Provincia di Verona; per alcuni giorni il Cinema venne aperto al pubblico per ospitare alcune mostre». Lorenzo ci racconta con le sue foto di una sala deserta ma ancora immacolata, una testimonianza cristallizzata nel tempo di una grandiosità e un’eleganza diventata inusuale nelle sale moderne. Il lucernario mobile con il grande rosone in vetro che domina il soffitto, è un elemento peculiare di questa struttura che tra uno spettacolo e l’altro si apriva grazie a un motore, permettendo al fumo che si accumulava nella sala di uscire.
Ma colpiscono anche gli elementi decorativi dorati e scanalati, il velluto rosso delle poltrone e i grandi palchetti laterali, che guardano direttamente alla fossa orchestrale[1]. Il palazzo subì profondi danni durante i bombardamenti del 4 gennaio 1945 e al termine del conflitto gli interventi architettonici che lo trasformarono nel Cinema Corallo vennero affidati all’ingegner Italo Mutinelli. Passo di frequente anche davanti a quel palazzo, anche se la via è così stretta che non è facilissimo distinguere le insegne al neon che ci ricordano quello che si nasconde dietro le saracinesche e la facciata. Non ho mai avuto l’occasione di entrarci da spettatore ma la nostalgia sale comunque, penso di fermarmi nella biglietteria anni Quaranta, di scostare le pesanti tende rosse dopo aver percorso la grande scalinata che porta all’interno. Nella cabina del proiezionista, dicono ci sia ancora un vecchio proiettore, ancora intatto, pronto a riprendere da dove si era fermato. Pensare che tutto era cominciato nel 1947, con la proiezione di Sangue e arena (Blood and Sand, 1941), di Rouben Mamoulian, interpretato da Tyrone Power e Rita Hayworth. I ricordi di quelle proiezioni, dei film che si sono accumulati sugli schermi, stanno ancora aspettando.
NOTE
[1] Per approfondire si veda: G. Puglisi Guerra, L’ex cinema Corallo, in «Notiziario Ingegneri Verona», n. 4, aprile 2010, pp. 13- 16.