Spinaceto pensavo meglio: il cinema dei D’Innocenzo
Il fascino del disagio è esso stesso disagio?
di Marco Triolo
L’umanità va verso l’unificazione. Al di là di tensioni e conflitti, la direzione generale della storia umana è chiara: accorpare, mescolare, ridurre le distanze. I moderni sistemi di comunicazione sono solo l’ultima manifestazione di questa tendenza: un tempo dovevi aspettare mesi prima che il tuo amico di penna ti rispondesse, oggi puoi chattare o videochiamare un collega dall’altra parte del mondo in tempo reale. Questo fa sì che si riducano anche le distanze tra le classi e le nicchie sociali: Internet è la grande livella, dove chiunque, dall’ingegnere informatico di Brembate di Sotto all’operatore ecologico di Sant’Apollinare Ciufolo, può esprimere la sua opinione su un dato soggetto, attenzione!, anche senza saperne nulla.
Internet è anche quel posto meraviglioso in cui, se posti la foto di un gatto randagio avvistato sul set del nuovo film di James Gunn, lui ti risponde cinque minuti dopo per dirti: «Fake news! Il gatto non è assolutamente randagio, è il nostro delegato di produzione! ». La rete sta, insomma, riducendo drasticamente la distanza tra star e fan, anche nel mondo del cinema. Lo ha scoperto a sue spese il giornalista Fabrizio Guida, che, qualche anno fa, all’uscita di America Latina, scrisse su Instagram: «Vediamo se i grandi fratelli D’Innocenzo sono riusciti a fare un film più brutto del primo, ma soprattutto più brutto del secondo». Gli rispose un misurato Fabio D’Innocenzo: «Ti compro, fallito».
Ecco la grande livella di Internet in azione, a ribadirci un concetto universale: anche laggente famosa sono esseri umani. In particolare, i Fratelli D’Innocenzo sono esseri umani più complicati di altri, altrimenti non farebbero i film che fanno. Rivedendo America Latina, ho pensato al Lanthimos de Il sacrificio del cervo sacro, quel tipo di autore che gode nel farti sentire a disagio, scoperchiando il barattolo del perbenismo borghese per mostrarti ciò che si cela al di sotto, nell’ombra. È anche un film che sembra farlo più per il gusto di darsi un tono da autore scomodo che non con un intento sincero. America Latina parte molto bene, ma poi si perde in un bicchiere d’acqua, nei rivoli interminabili di scene messe in fila per creare disagio senza una direzione precisa, in dialoghi “strani” recitati strani perché sì. La confezione, sia chiaro, è impeccabile: un Agro Pontino gelido e inospitale, puntellato da sparute costruzioni di rara bruttezza (inclusa la villetta del protagonista). Un disagio che trasuda da ogni singola immagine: è così che si fa il cinema, bisogna ammetterlo.
Solo che poi questo immaginario diventa una sorta di comoda scusa per adagiarsi sugli allori, per non impegnarsi a raccontare qualcosa che, al di là dell’ambientazione e del fascino del disagio, abbia un qualche senso ulteriore. L’allegoria di America Latina – il dentista con la bella famiglia che ha in realtà oscuri segreti nascosti “in cantina” di cui non era a conoscenza – è tanto immediata quanto banale, ma viene trattata dai D’Innocenzo come se fosse la grandissima idea di cinema che basta e avanza per farci un film intero. Ma non è così, e diventa dolorosamente evidente dopo mezz’ora.
Favolacce, la loro opera seconda e quella che li ha proiettati con forza sulla scena internazionale (Migliore sceneggiatura alla Berlinale), al confronto è molto più riuscito, ma resta un film di raro voyeurismo, raccontato con morboso trasporto. È un film per certi aspetti affascinante, ma, come nel caso di America Latina, non si capisce davvero che cosa ci voglia dire, al di là di “il mondo è una merda e andrà sempre peggio”. Entrambi i film, oltretutto, si concludono con un servizio di telegiornale che esplicita tutto il non detto. Nonostante un impianto visivo di prim’ordine e una innegabile capacità di narrare per immagini, sono dunque cripto-didascalici e non lasciano alcuno spiraglio alla libera interpretazione dello spettatore. “Il mondo è una merda e andrà sempre peggio”, mic drop.
Eppure il loro esordio, La terra dell’abbastanza, era un grande biglietto da visita, l’unico possibile erede del Neorealismo, con le sue periferie difficili, vite ai margini e desiderio di rivalsa in un mondo cattivo. Un film duro, secco, ben confezionato e coraggioso, che cercava una dimensione di verità e riusciva a trovarla con lucidità rara. Che cosa è successo, dunque, a quei registi?
C’è, forse, che dopo Favolacce hanno deciso di trasformarsi nei Grandi Nemici del PerbenismoTM. Il passo da filosofo a complottista su Facebook è breve, per cui bisogna essere dosatissimi e saper camminare sul filo di un rasoio affilatissimo, cosa che a quanto pare ai D’Innocenzo non riesce del tutto. Sarà che hanno deciso di affidarsi a Elio Germano, il cui costante overacting non aiuta certo a dosarli, quei toni. Sarà che in questa estetica del dolore loro sembrano sguazzarci un filo troppo, al punto che diventa stucchevole. O forse sarà che, come testimonia l’affaire Fabio D’Innocenzo, i due soffrono di un’insicurezza profonda che ne ha fatto deragliare il talento verso la spocchia.
Quel che è evidente è che il cinema, per Fabio e Damiano D’Innocenzo, è un’eterna seduta di terapia che, anziché essere un affare riservato, è spiattellata davanti agli occhi di tutti. Forse, quando il trattamento sarà concluso, smetteranno di fare film così respingenti e riusciranno a dire finalmente qualcosa di originale. O forse smetteranno semplicemente di fare film.