The End of the Tour

Un viaggio con David Foster Wallace

di Michele Cannas

Leggere David Foster Wallace è un atto di fede. Almeno lo è la prima volta che ci si approccia a questo scrittore, scomparso nel 2008, che negli anni è riuscito a creare attorno a sé uno di quei fandom che solo pochi autori possono dire di avere.

David Foster Wallace non aveva un carattere semplice, non era una persona solare e non aveva, per quanto ci è dato conoscere, una personalità accomodante: lo si può intravedere dai suoi libri, che quasi mai trattano del suo autore in modo diretto; o da The End of the Tour, film del 2015 diretto da James Ponsoldt, con Jason Segel e Jesse Eisenberg a fare da protagonisti in un road movie dal quale non è semplice uscire senza l’emozione di chi, sapendo il tragico finale del suo protagonista, conosce qualche segreto della sua persona grazie ai suoi libri.

Se un road movie si definisce tale quando i personaggi si apprestano a fare un lungo viaggio in auto cambiando le loro abitudini e abituandosi l’un l’altro – e dove quindi anche il mezzo “automobile” è fondamentale agli sviluppi della trama – questo film potrebbe essere invece ambientato in uno spazio qualsiasi: una lunghissima conversazione sul mondo, sulla società occidentale che deve rendere il conto di tutto il XX secolo, sulle persone, sulla paura e sull’intrattenimento.

Wallace, interpretato da Segel, ci ha lasciato una bibbia del divertimento, del gioco, dello scherzo, della continua ricerca da parte della società figlia del Novecento di avere sempre qualcosa da fare per la paura della noia. Infinite Jest, pubblicato nel 1996, è un’opera cui non è facile approcciarsi: nell’esprimere allo stesso tempo la riluttanza e la dipendenza dall’essere intrattenuti, l’opera diventa un’auto-parodia, dal momento che rappresenta essa stessa l’intrattenimento per il lettore: un loop meta-narrativo tra dipendenze che Donald Margulies, sceneggiatore del film, riesce solo parzialmente a consegnare visivamente allo spettatore.

Il film è basato su un altro libro, Although of Course You End Up Becoming Yourself, scaturito dalla penna del giornalista David Lipsky, interpretato da Eisenberg, che seguì lo scrittore durante le fasi finali del tour di promozione di Infinite Jest negli USA, a marzo 1995. Inviato per «Rolling Stones», Lipsky e il suo registratore passarono una settimana con Wallace, e il tanto materiale raccolto diede vita, due anni dopo la morte dello scrittore, al libro da cui questo film è tratto.

La pellicola si apre con la notizia della morte di Wallace, avvenuta per suicidio il 12 settembre 2008. David Lipsky apprende questa informazione, e questo funge da input per ricordare quei giorni di dodici anni prima, che segnarono Lipsky tanto da fargli conservare tutto il materiale che aveva raccolto, e lo convinsero a scriverci un libro. Una volta arrivato a casa di Wallace, assistiamo all’approccio del giornalista nei confronti di quello che al tempo era ancora considerato un astro nascente della letteratura americana, con le solite gaffe da primo incontro con una persona che si stima e che, fino a quel momento, non si è potuto che immaginare.

Il film riflette sulla vita di David Foster Wallace in modo delicato, senza mai esporre troppo la sua persona – l’enigmaticità che lo contraddistingueva in vita non ci ha lasciato tante testimonianze sul suo vero carattere – e senza cadere mai nel banale citazionismo da biopic a cui siamo, purtroppo, tanto abituati. E infatti, sia il libro che il film non sono, e non mirano ad essere, una biografia.

Nel procedere rapido e incalzante del film, conosciamo oltre ogni retorica un Wallace allo stesso tempo lontano e vicino ai romanzi che ha consegnato alla storia. Chi ha letto le parole dell’autore americano, e le ha fatte in qualche modo sue, sa bene quanto il tema della dipendenza sia fondamentale e ben inserito nel contesto dei suoi libri. I personaggi inventati da Wallace, come per ogni grande scrittore, non sono altro che proiezioni dell’autore stesso: nel suo caso, però, è chiaro come egli li usi per demonizzare la sua stessa persona, di cui ha paura, di cui conosce le infime debolezze che lo portarono, anni addietro, ad abuso e dipendenza da alcool. Wallace scriveva di altri per evitare di essere sé stesso.

Nel film viene spiegato che la dipendenza dalla tv, dall’intrattenimento, dall’essere sempre occupato, erano la sua vera droga, e Wallace ne era a conoscenza a tal punto da riuscire, in qualche modo, a combattersi. In tutto ciò, la brama occidentale del successo, l’americanicità tutta che prende il sopravvento nella società dei consumi e della gara a chi arriva prima, viene espressa in questa frase, pronunciata dal protagonista: «Più la gente ti ritiene grande, più aumenta la paura di essere una frode».

The End of the Tour è un film essenziale per chi ama Wallace, per chi ne ha letto i libri e per chi conosce le sue idee. Ma è anche un film per chi odia le pellicole biografiche, per chi respinge le santificazioni dei personaggi scomparsi e per chi vuole conoscere lo spaccato di una società di cui fa parte, ma di cui non si è ancora reso conto.