Visioni di un proiezionista
Riflessioni all’uscita di sala
di Emanuele Antolini
Il lavoro del proiezionista, sebbene di primo acchito possa sembrare avvolto in una coltre di solitudine romantica – leggasi Nuovo cinema paradiso – in realtà è caratterizzato per la maggior parte del tempo dal sapersi relazionare con il proprio pubblico. Scambiare pareri sul film che una persona andrà a vedere, dare una panoramica su un determinato regista o semplicemente fornire consigli di visione (su richiesta: nessun cliente viene molestato cinefilmente) sono le attività più interessanti da svolgere, soprattutto per capire che cosa gli spettatori oggi chiedono dal cinema in quanto arte.
D’altronde, quando una persona entra in sala, è come se facesse un patto con se stessa, decidendo che da quel momento in poi la propria attività immaginativa debba sovrapporsi con l’esperienza audiovisiva in atto, costruendo una serie di processi consci e inconsci in grado di creare una nuova psiche, una nuova realtà, un sogno ad occhi aperti. L’uscita dal buio del cinema è perciò fondamentale per capire se il film è risultato a tutti gli effetti un sogno o, invece, è mutato in incubo.
Da inizio 2024 ho potuto constatare che sostanzialmente il pubblico si divide in due categorie: chi ha la necessità o voglia di evadere dal quotidiano della propria realtà e chi chiede al film di essere sfidato intellettualmente ed emotivamente. Alla prima categoria il mese di gennaio ha saputo proporre Perfect Days di Wim Wenders, che nel one man show del protagonista ha colto un’evasione dalla velocità digitale contemporanea, dal caos veronese (ma il sottopassaggio aprirà per il Vinitaly?) e una ricerca nostalgica di un tempo analogico in cui tutto sembrava – a detta di molti spettatori – più semplice. Nella seconda categoria, invece, i soci e le socie del Circolo del Cinema hanno trovato nel fluviale Trenque Lauquen pane per i loro denti. Il film di Laura Citarella in particolare pone la propria fede nel territorio che appartiene solo al cinema laico: la fede nel dubbio. Non è un caso che, mesi dopo la proiezione una socia mi confessi che sta ancora pensando al finale, chi invece si domanda se le due parti siano due opere differenti, o che un socio dopo aver visto Upon Entry di Rojas e Vásquez esclami: «Ogni film dovrebbe durare così!» (velato riferimento a Trenque Lauquen).
Non tutti perciò amano uscire dal cinema con più domande di quelle con cui sono entrati, come un abituale spettatrice ha sentenziato riguardo Prima danza e poi pensa: «Questo è un film difficile e perciò non andrà a vederlo nessuno». In questo caso il dubbio lo pongo io sulla prima affermazione, mentre sulla seconda nulla da reclamare: il biopic su Samuel Beckett sta ancora aspettando Godot. L’importanza data alla storia come elemento narrativo che parte da un punto A per arrivare a un punto B senza troppi intoppi rimane centrale per l’esperienza cinematografica di molti.
Non è un caso che la danza libertina e liberatoria di Bella Baxter sia entrata nel cuore degli spettatori, dato che Povere creature! è il film di Yorgos Lanthimos più accomodante nei confronti del nostro sguardo, seppur mascherato da chili di scenografie steampunk e da fisheye tanto ingombranti quanto à la page se rapportati alla poetica del regista greco. O che Past Lives di Celine Song abbia commosso la maggior parte di chi lo ha visto: «Se non piangi per questo film vuol dire che non sei mai stato innamorato», singhiozza con occhi gonfi una spettatrice, «Meno male che mezza lacrima mi è scesa» penso io.
Gli applausi in sala sono scaturiti, del resto, da film tanto importanti per il tema quanto toccanti per le corde emotive del pubblico come 20.000 specie di api o La folle vita. Poi succede che al cinema atterri un UFO, che nel bene e nel male non lascia mai l’indifferenza dall’uscita in sala: La zona d’interesse di Jonathan Glazer. Il film del regista inglese riempie il cinema – sold out nella serata con il dibattito post visione – e soprattutto fa discutere, trascendendo i concetti di bello o brutto, ri-articolando domande che prima di tutto interrogano il nostro presente con immagini nate da incubi del passato. La sala, con i tre minuti di schermo nero combinati ai suoni di Mica Levi, diventa una sorta di macchina del tempo che ci trascina in un Eden infernale, un teatro degli orrori che risponde alla nostra esigenza più grande – conscia o meno – in quanto spettatori: quella di sentirci parte di un trauma collettivo per esorcizzare la brutalità dei tempi che stiamo vivendo.