Papà, te che talento hai?
Filosofeggiare facendo la verticale, cantare il tango, fare il mimo.
In Puan – Il professore Marcelo è impiegato all’università pubblica di Buenos Aires, insegna filosofia politica e incarna l’attitude dell’antieroe per antonomasia: goffo, rocambolesco, sovrastato dalle gag della vita di cui, però, si accorge solo lui. Non è di tutte le commedie capire di aver bisogno di un’ironia buona (nel senso dolce del termine), indulgente e delicata, non tanto per non mettere in difficoltà il protagonista – che si districa tra pannolini sporchi e una suoneria del telefono imbarazzante -, ma per metterlo di fronte a come guarda sé stesso.
Nell’universo/università di Puan, l’unico posto in cui Marcelo si sente veramente qualcuno – contrariamente al suo ambizioso collega Rafael che per gli altri è anche colui che frequenta la famosa attrice Vera Motta; contrariamente a sua moglie che oltre ad essere madre di loro figlio è anche un’attivista spesso ingaggiata in dibattiti tv – il protagonista finisce per capire quanto questa convinzione sia fallace e storta. In fondo, solo lui risulta a sé stesso ridicolo e piccolo, talvolta passivo, talvolta invidioso. Di certo pure lo spettatore lo vede così, ma avendo l’opportunità di vedere anche chi gli orbita attorno: nessuno, in fondo, riesce davvero ad accorgersi che ha i pantaloni sporchi, che sta improvvisando la lezione, che si dimentica gli appuntamenti o che non vorrebbe proprio presentarcisi.
Nella piccola corsa forsennata all’ottenimento della cattedra dopo che il collega/mentore muore, Marcelo è costretto a praticare, forse per la prima volta, quello che insegna: finché il pensiero è protetto nella nostra mente non ha effetto. Alcune volte meno male, direi, nelle situazioni più imbarazzanti e buffe dove è solo Marcelo a vedersi, altre volte è un vero peccato, soprattutto se si vive e si è costretti a rispondere alle domande degli altri: il professore prende atto dei suoi talenti solo quando servono ad una recita scolastica per il figlio; capisce che la morte del suo mentore è anche un po’ la sua, come se fosse stramazzato lui da quell’infarto durante la scena iniziale del film, solo quando sceglie davvero di inseguire quello che vuole.
Il pensiero diventa tale solo quando viene espresso e, quando viene espresso, diventa politico. Puan non scappa da questa tesi e, pur potendo essere ancora più incisivo su questo fronte, non molla il punto. Il fondale che sta dietro alla storia di Marcelo è una Buenos Aires dove le proteste per i diritti vengono chiuse fuori dalle serrande dei locali che si abbassano, dove chi dovrebbe rappresentare lo Stato si comporta con violenza ed è molto simile a chi – e nei miei anni di studi l’ho sentito parecchio – ti chiede con sguardo vuoto a cosa serva studiare filosofia.
Tralasciando un elogio all’inutilità, che a tutti farebbe bene e potrebbe essere un altro film ancora, Puan o meglio ancora Marcelo dà una risposta convinta e il suo talento vero non è filosofeggiare facendo la verticale, ma muovendosi: fare filosofia è uno stile di vita.
E in quanto stile di vita va professato. Le domande non vanno solo pensate, ma vanno fatte ad alta voce. E magari in piazza, nelle strade, contro chi ci vuole togliere pure il diritto di avere diritti, grazie.
Marika Zandanel