Una lenta panoramica riprende in campo lungo il deserto del Gobi, nord-ovest della Cina. Un furgone sta percorrendo l’unica strada sterrata quando, all’improvviso, un gruppo di cani randagi attacca il veicolo provocandone il ribaltamento. Sembra un inizio di un film western quello di Black Dog, con il furgone al posto della carovana e i cani alla stregua dei nativi americani. E sembra appartenere al western anche il protagonista della storia, ovvero Lang, ex famoso motociclista di ritorno nella propria cittadina d’origine dopo l’esodo forzato causa prigione. Lang è taciturno, proprio come un antieroe leoniano, e cerca in quel che resta di una Cina rurale un segno che gli dia un motivo per continuare a vivere. Come un deus ex machina ecco comparire un cane nero, simbolo di una ribellione verso l’egemonia del progresso a tutti costi che spersonalizza luoghi e uccide culture. Da qui in avanti il loro rapporto trainerà il girovagare di Lang nei polverosi spazi della cittadella, in una lotta forzata – Lang, come i cani randagi – contro chi vuole scacciare da quelle terre chi non vuole essere parte del sistema. Black Dog, dunque, è un film anche crepuscolare che può essere accomunato al western moderno nato negli Stati Uniti durante la Guerra in Vietnam, dove gli ultimi fuorilegge guardavano con disprezzo l’arrivo della ferrovia. Non è un caso che tra gli attori principali del film di Guan Hu ci sia il grande Jia Zhangke, regista che come nessuno ha messo in scena (ricordiamo Still Life, Leone d’oro alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2006) l’aggressiva politica cinese per modernizzare da un punto di vista urbanistico le piccole cittadine. E in questa storia di un rapporto così atipico eppure sincero tra un uomo e un cane, si scopre pian piano il piacere di una ritrovata serenità interiore, che cancella i traumi di un passato che sono, forse, quelli di un intero Paese. I gesti, dunque, assumono un valore simbolico importante, molto più delle parole – pochissime – che nel film appaiono quasi superflue. Prendersi cura di ciò che è stato – che sia una casa o una vecchia tigre abbandonata in uno zoo – diventa una missione sociale per non cancellare il passato, che sia oscuro o meno. Prendersi carico di questa responsabilità, però, in un’epoca così orientata al progresso (siamo nel 2008, l’anno delle olimpiadi di Pechino) può essere un salto nel vuoto che Lang, fortunatamente, non ha paura di compiere. E il finale del film, che immerge lo spettatore in una favola, sulle note di Hey You pare profetico:
Hey you, don’t help them to bury the light / Don’t give in without a fight.
Emanuele Antolini