Il cinema, come la vita, è un luogo pieno d’imprevisti dove ciò che si vorrebbe realizzare è costantemente condizionato dal mondo esterno. A volte ci sono piccole interferenze che vengono filmate e danno un tocco in più alle scene, come l’elicottero che irrompe nelle riprese iniziali de La luna di Bertolucci, altre volte, invece, produzioni intere vengono annullate a causa di inconvenienti, ne è un esempio la vicenda del Don Chisciotte di Gilliam, e ci sono, infine, situazioni in cui un regista è costretto a cambiare completamente la forma dell’opera, pur mantenendone lo spirito, come fatto da Theo Montoya con Anhell69. Egli, infatti, avrebbe voluto realizzare un film fantascientifico, basato su un suo precedente cortometraggio, in cui riflettere, attraverso la rappresentazione della vita di alcuni ragazzi spettrofili, sulla condizione della comunità queer in Colombia. Durante le prime fasi di produzione, però, il protagonista muore di overdose e, come lui, nel giro di poco tempo molti altri amici di Montoya perderanno la vita. A partire dal dolore per questi lutti, l’opera viene trasformata in un documentario, tanto equilibrato quanto acentrico, in cui si innestano riflessioni su sessualità, droga, malattia e morte in una città fintamente aperta come Medellin. La narrazione parte da alcuni tape registrati per i provini di quello che avrebbe dovuto essere il film, stratagemma narrativo che permette ai morti di vivere nuovamente e al regista di rendere loro omaggio e di mantenere il tema della spettrofilia: ora non è più un unione carnale con dei fantasmi, come nell’idea originale, bensì un enorme segno d’amore verso i propri cari defunti. La scomparsa di questi giovani viene rappresentata come il sintomo di una società malata come quella di Medellin, dove Escobar e i narcotrafficanti sono idolatrati e il riconoscimento di città gay-friendly è solo una mistificazione, infatti, se è normale manifestare il proprio amore in pubblico senza destare scalpore, lo è anche venire impalati per strada per la sola colpa di essere omosessuali. L’idea di ragazzi in grado di vivere la loro sessualità solamente con degli spettri era già un’esplicita metafora del disagio e dell’impossibilità di esprimere liberamente il proprio essere in un contesto simile e il passaggio da fiction a documentario ha ulteriormente amplificato questo concetto. Le interviste presenti, infatti, mostrano il contrasto tra l’apatia a cui riduce la totale mancanza di prospettive offerte dalla Colombia e la lucida vitalità che resiste negli occhi dei giovani che la abitano, nonostante la loro disillusione e l’abitudine alla morte. Il contatto con l’aldilà, presente sia nel progetto originario che nel documentario, è un topos tipico del cinema e della cultura sudamericana, e, unito al folklore, rimanda all’immaginario del realismo magico. Questo genere, però, in Anhell69 viene reinterpretato: pur rimanendo i contenuti succitati, il voice over straniante, quasi metafisico, e l’importanza narrativo-iconografica dell’ambientazione, essi vengono depotenziati della loro carica mistica, per poterli coniugare con il tono documentaristico. L’ibridazione tra questi due generi, così profondamente distanti tra di loro, ha permesso a Montoya di rendere reali e tangibili i segni di una vita passata che continua a esistere negli spettri, talvolta morti, talvolta (ancora) vivi, nascosti nelle ipocrisie di Medellin e della Colombia tutta.
Riccardo Chiaramondia
