Alla base di ogni riflessione attorno al cinema di Paolo Franchi potrebbe collocarsi una domanda: di che male segreto sono vittima i personaggi? Dall’esordio La spettatrice fino a quest’ultimo lavoro sembra che la filmografia del regista bergamasco sia attraversata da un interesse verso quella che potremmo identificare, usando un’espressione antonioniana, come malattia dei sentimenti. Incomunicabilità, depressione, difficoltà nel relazionarsi: i protagonisti di Franchi sono vittime di emozioni represse, che trovano nel contesto della società borghese illustrata dal regista un muro di inibizioni, sia mentali che fisiche (portate all’estremo nel controverso E la chiamano estate). L’ultima opera di Franchi va a inserirsi dunque in un discorso aperto sull’emotività compromessa di una classe borghese che comunica il disagio attraverso sguardi mesti e dialoghi affettati: è in questo gioco di silenzi incrociati che si consuma il “grido” interiore dei personaggi (per rievocare ancora Antonioni che Franchi stima e più o meno coscientemente imita).