Tra i film della “nuova ondata” resistenziale, sono Il gobbo di Lizzani e Il terrorista di Gianfranco De Bosio, a tentare di analizzare le dinamiche e le ragioni anche individuali dell’adesione alla lotta partigiana, mettendo in luce le contraddizioni che si insinuavano all’interno della Resistenza stessa. De Bosio porta sullo schermo la figura di un gappista veneziano, apparentemente legato al partito d’azione, ma solitario ed insofferente alle ragioni della politica, agli equilibri all’interno del Comitato di liberazione nazionale (CLN), alle conseguenze dei suoi gesti. È pervaso da un furore che si trasforma in azioni “terroristiche” contro i nazifascisti: un cane sciolto da quelle dinamiche politiche che già strutturavano la lotta partigiana e anche il dopoguerra repubblicano. Il terrorista è uno dei pochi film, se non il solo, che analizzi e metta in scena in modo accurato ciò che stava “dietro le quinte” della Resistenza e cioè l’organizzazione politica e non solo militare della lotta antifascista. Ed è forse il primo, autentico, film resistenziale; di sicuro il più anomalo anche rispetto agli esordi cinematografici di quegli anni.
Sono citati nel film, seppure in modi e tempi diversi dai fatti reali, due importanti avvenimenti avvenuti a Venezia tra il luglio del ’44 e la primavera del ’45. Il primo, con il quale si apre il film, è l’attentato a Ca’ Giustinian del 25 luglio del 1944 compiuto, ed è ormai assodato, anche da Franco “Kim” Arcalli, futuro montatore cinematografico e sceneggiatore di fama. La bomba provoca l’uccisione di tredici persone, tra cui due militari tedeschi, e una trentina di feriti (Ca’ Giustinian era la sede del comando provinciale della Guardia nazionale repubblicana), e per rappresaglia vengono assassinati altrettanti detenuti politici sulle macerie del palazzo. Il secondo avvenimento, citato verso il finale del film, è la fucilazione, il 3 agosto del ’44, nell’allora riva dell’Impero (oggi riva dei Sette martiri), di sette detenuti politici come rappresaglia al presunto assassinio di un militare tedesco (probabilmente annegato casualmente). Il tono che permea tutto il film è “invernale”, grigio, segnato da una profonda solitudine e dall’assenza. Venezia, la città minore e marginale che fa da set al film, è svuotata, piovigginosa, lontana. Vi domina un profondo senso di vuoto, come se i partigiani si muovessero in una “zona morta”, da soli, o, al massimo, in contatto solo con altri partigiani.
Interpretato da Gian Maria Volontè, Braschi è, per esplicita ammissione del regista, ispirato alla figura di Otello Pighin, medaglia d’oro della Resistenza, comandante della brigata “Silvio Trentin” con il nome di battaglia “Renato”, la cui filosofia era “un attentato al giorno per non dare riposo al nemico” e per ricordare costantemente ai nazifascisti che non erano benvoluti ma odiati. Braschi è fuori dalle logiche politiche, dalle alchimie dialettiche e ideologiche, ed è inoltre scettico nei confronti del futuro, nella possibilità di una libertà autentica. È un “terrorista”, e non propriamente un eroe: si rifiuta costantemente di tener conto della necessità di collegarsi con gli altri partigiani, non ha alcuna cautela, non si preoccupa delle possibili rappresaglie. Nel suo agire compie errori madornali per un resistente in clandestinità, come dimenticare l’indirizzo di Oscar a casa propria, o attuare azioni un po’ goliardiche anche se giustificate, o far saltare in aria l’altoparlante che in campo Santa Maria Formosa trasmette i proclami nazifascisti, o peggio, sostituire all’ultimo minuto un compagno per l’azione dinamitarda alla sede de «Il Gazzettino» con risultati disastrosi. È proprio la costruzione antieroica accompagnata da un rigore morale autentico e da un’intransigenza senza possibilità di compromesso, che rende il personaggio interpretato da Volontè quello che ha più caratura drammatica e anti didascalica. Quando Braschi spiega alla moglie, nel solo momento di tregua e di “normalità” del film, ragioni delle sue difficili scelte, si capisce quale sia la funzione etica e politica che De Bosio vuole dare al personaggio.
Il film ha un esito commerciale modesto e ha difficoltà ad esser visto in Italia, secondo Kezich per gli ostacoli posti da esercenti e distributori nei confronti dei “film politici”. Resterà a lungo un “sommerso”, citato nei circoli Anpi, visto in qualche cineforum, qualche volta trasmesso in televisione e a fare la polvere negli archivi Titanus e Lyre (nella versione francese). A sessant’anni dalla sua uscita in sala, torna ora nella versione magnificamente restaurata da Patricia Barsanti; non è fuori tempo: il momento sembra ancora una volta quello giusto.
Giuseppe Ghigi