“Ho fatto carriera convincendo la gente a dirmi la verità. Ora tocca a me.”
Sappiamo davvero chi sono i nostri miti ed eroi? Cosa si cela dietro un volto o un gesto, quale facciata si presta al nostro giudizio e, infine, alla stessa Storia? Stimola anche queste domande la visione di Oh, Canada, ultimo film del regista e sceneggiatore Paul Schrader, autore che ha attraversato il cinema della Nuova Hollywood portando il suo personale contributo, costituito dalle storie di un insieme di personaggi che potremmo facilmente immaginare riuniti in uno stesso girone (forse più infernale che paradisiaco).
Tra questi per certi versi potremmo aggiungere anche il protagonista di Oh, Canada, Leonard “Leo” Fife, interpretato da Richard Gere, che torna a lavorare con Schrader a distanza di molti anni (lo rese celebre nel 1980 dandogli il ruolo principale nel suo American Gigolò). Anziano filmaker americano, diventato negli anni un’icona progressista anche grazie al suo importante e risonante lavoro di documentarista, Leo incarna ancora una volta una tipologia di personaggio ricorrente nel cinema di Schrader, ricco di uomini piagati dal senso di colpa ma in qualche modo in grado di vedere la luce, trovando un sentiero di redenzione. Percorso che di solito è bagnato di sangue, perché è la violenza in Schrader a condurre alla catarsi, come ingrediente necessario di un rito di purificazione, spesso inutile. In Oh, Canada, il conflitto interiore avviene tuttavia in uno scenario insolito: in una sorta di rito sì, ma pubblico, piuttosto che interiore, in quello che potrebbe essere definito uno dei film più personali del regista.
Leo, giunto a fine carriera e malato terminale, accetta di condividere la storia della propria vita passando dall’altro lato della telecamera, con l’aiuto di due suoi ex studenti. Inizialmente sembra l’occasione di un resoconto autobiografico e sobriamente autocelebrativo, ma le intenzioni di Leo sono ben altre. La macchina da presa, oggetto simbolico di una vita dedicata alla documentazione della vita reale, diventa così lo strumento del suo rito di redenzione, aprendo così una faglia nel passato e nel presente di Leo. Ecco che l’attrezzo che lo ha reso famoso passa dall’essere filtro della realtà a meccanismo di rottura della “finzione” che sta dietro il reale, innescando un meccanismo di autodistruzione del personaggio. Come il reverendo Toller (First Reformed), o Narvel Roth (Il maestro giardiniere), Leo decide che è il momento per fare i conti col passato, però in una fase di anzianità e con un metodo, questa volta, pacato, la confessione. È facile vedere dietro quel volto lo stesso Schrader.
Rispetto ai film precedenti, Oh, Canada anche stilisticamente e dal punto di vista della fotografia appare più “lieve”, meno cupo, pur essendo fondamentalmente una storia di peccati e un racconto che pone l’accento sull’effetto che ha sugli individui la vicinanza della morte. «È il mio Ivan Il’ič» ha detto Schrader citando il romanzo di Tolstoj come fonte d’ispirazione per questo film, che è tratto da uno degli ultimi romanzi scritti dall’amico Russell Banks (di cui aveva già trasposto Affliction) a breve distanza dalla diagnosi di cancro.
Oh, Canada è quindi soprattutto un film sulla fase finale della vita, in cui avviene passato e presente si affrontano e in cui può scatenarsi un momento lucido e catartico. Schrader, all’età di 78 anni, forse per la prima volta nella sua fertile carriera ci offre una riflessione sulla morte e sulla propria stessa arte così vicina e personale.
Michele Bellantuono