In un mondo e in un tempo presente, una grave malattia dalle origini sconosciute provoca mutazioni nella popolazione umana: i suoi effetti provocano una progressiva trasformazione fisica e mentale in varie specie animali. Nella contesto francese del film The Animal Kingdom (“Il regno animale”) del regista Thomas Cailley, queste creature sono chiamate dalla popolazione di non malati “les bestioles”, bestiole, creaturine, un termine denigratorio che colloca immediatamente la storia nella prospettiva di un genere fantascientifico interessato più all’aspetto sociale della mutazione, che non al suo effetto spettacolare, o di orrore o di puro intrattenimento, per quanto nessuna di queste categorie sia assente nel film.
Creature e persone appaiono sin dal primo momento accostate in un contesto tipicamente quotidiano. Proprio nel bel mezzo del traffico cittadino, i due protagonisti François e Émile, padre e figlio, assistono alla violenta fuga di un mezzo uomo-mezzo volatile da un’ambulanza. Le creature vengono infatti con tentativi disperati catturate, portate in Centri sanitari dedicati a esse e “trattate”, in modo in realtà brutale, con interventi chirurgici da macellaio che si limitano a deturpare le sembianze animali che iniziano a prendere il sopravvento su quelle umane. In questo modo i Centri sembrano non fare altro che ostracizzare ulteriormente le vittime della pandemia, sfigurandole e rendendole delle chimere imperfette e ferite, metà umane e metà bestiali, come Émile impara da un confronto con l’uomo-uccello, diventato suo amico dopo aver scoperto che lui stesso sta lentamente sviluppando i sintomi della malattia.
Il film di Cailley ci illustra così un mondo in cui il concetto di bestialità diventa fluido, scisso tra un significato più morale (attribuibile al comportamento di molti “ancora” umani) e fisico o genetico, manifestato da una trasformazione che, vista con occhi diversi da quelli dei vari militari, medici o anche solo dalla gente comune che insulta e caccia le creature (che fino a poco tempo prima erano della stessa loro specie), può trasmettere anche bellezza. “Sarò magnifico” afferma il martoriato uomo-uccello, non afflitto dalla disperazione per la sua mutazione, ma quasi in attesa di vederla perfezionata, portata a termine. In The Animal Kingdom lo scontro tra stato naturale e stato sociale è dunque gradualmente percepito, dallo sguardo privilegiato dei due protagonisti, come una guerra insensata. Oltre ogni forma di ribrezzo sociale per l’orrore corporeo, è proprio la mancata capacità di convivenza tra esseri viventi diversi che emerge come elemento drammatico dal film, il cui titolo stesso sembra spingerci (quasi ironicamente) a immaginare un futuro remoto in cui questa malattia avrà finalmente preso il sopravvento, inaugurando un’era diversa: un Regno, un’alternativa più pura e positiva all’Antropocene.
L’aspetto di critica sociale invita dunque lo spettatore a riflettere, come nella più interessante fantascienza, ad esempio quella di District 9 di Neill Blomkamp, più a un mondo odierno che a un remoto passato o futuro. Una riflessione che deve riguardare il più possibile determinate categorie sociali, a partire dai giovani, dalla scuola, per poi toccare naturalmente la scienza e l’autorità politica. The Animal Kingdom non è solo un curato film di fantascienza, è un invito globale alla tolleranza e alla coscienza rivolto alla sola specie che ne ha bisogno: quella umana.
Michele Bellantuono
