Earth Mama

«Sopravvalutando la relazione materna, torneremo sempre al determinismo biologico e saremo sempre sottomesse. Credo che dietro l’attaccamento di molte donne al mito della maternità, si nasconda la paura di perdere quello che viene visto come l’unico privilegio femminile, la nostra zona di potere». 

Le parole di bell hooks, intellettuale e attivista afroamericana da sempre impegnata nella decostruzione dei pilastri sociali, antropologici e culturali con cui ancora oggi le donne nere si devono scontrare nella società statunitense, rappresentano il punto di partenza per immergersi nella storia della protagonista di Earth Mama, lungometraggio d’esordio di Savanah Leaf. Gia – interpretata dalla rapper Tia Nomore, anche lei al suo esordio come attrice – dopo aver attraversato la tossicodipendenza e aver affrontato due gravidanze, sta per avere la terza figlia e vuole riflettere sul suo ruolo come madre di Trey e Shaynah, i primi due figli dati in affidamento, che può vedere solo un’ora a settimana sotto sorveglianza. Anche l’amica Trina frequenta i tossicodipendenti anonimi e sta affrontando una gravidanza, ma nonostante l’amicizia che le lega il continuo confronto con le sue rigide convinzioni riguardo la maternità mette progressivamente in crisi Gia.

Earth Mama compone un ulteriore capitolo nel percorso cinematografico, iniziato con A Thousand and One di A.V Rockwell, che ragiona sulla maternità per decostruire alcuni degli stereotipi con cui viene vissuta e anche raccontata al cinema. Se nel film presentato a novembre una donna sceglieva di prendere con sé un bambino con cui percepiva un legame, anche senza esserne la madre biologica, nel film di Savanah Leaf la protagonista deve invece percorrere un sentiero di segno opposto, capendo se affidare la nascitura a una nuova famiglia con la formula della open adoption, che le permetterà di fare comunque parte della sua vita.

In un’intervista, la regista ha affermato che la scelta di raccontare questa storia – del film è anche sceneggiatrice – è scaturita da un’esigenza personale, alimentata dalla sua esperienza come sorella maggiore di un bambino adottato: «Penso che il film tratti il tema della maternità, non soltanto in relazione all’esperienza della gravidanza, ma anche considerando le diverse figure materne che costellano la vita di ognuno di noi, che sia l’amica più cara, un’insegnante, o magari una persona che non è una madre biologica ma si assume quel ruolo». Il film ci mostra le difficoltà della protagonista nel districarsi tra le complicazioni che il sistema del foster caring le impone, e ragiona visivamente concentrandosi sull’utilizzo del primo e primissimo piano e del dettaglio, asciugando la messa in scena. I campi lunghi sono rarissimi, la regista infatti preferisce avvicinarci quasi ossessivamente alla protagonista, alle sue lacrime, sentiamo il suo respiro appesantirsi e unirsi al rumore del vento che attraversa le foglie degli alberi.

È proprio alle piante che sono legate le uniche digressioni stilistiche che Savanah Leaf si concede: alcuni frammenti onirici, legati alla metafora della maternità come radicamento di un albero che mutano da sogno a incubo e vanno a unirsi ai numerosi riferimenti scenografici e sonori legati al mondo vegetale che il film ci propone. L’idea di maternità diventa una selva sempre più intricata e soffocante, una foresta che in fondo imprigiona e non lascia passare che pochi raggi solari. Questa foresta ci ricorda che, nonostante il sostegno e la comprensione altrui, Gia rimane sola di fronte a una scelta complessa come quella di definire se stessa, ancora prima di essere madre.

Francesco Lughezzani

Cinema Kappadue

16.30 - 19.00 - 21.30

Proiezione

28 marzo 2024

Regia

Savanah Leaf

Durata

97 min

Origine

Gran Bretagna, Usa, 2023