Sono racconti essenziali e autentici, quelli nati da questa “nuova onda” del cinema sardo, tra i più interessanti fenomeni del mondo produttivo italiano. Un cinema che restituisce attraverso i ritratti dei suoi protagonisti il sapore della terra che racconta, dolce ma anche amaro, sempre capace di restituire il fascino di quest’isola bellissima ma non priva di ombre. Questa è appunto la sensibilità che guida la regia di Mario Piredda, giovane autore sassarese premiato col David di Donatello nel 2017 (per il cortometraggio A casa mia). L’agnello è da sinossi la semplice rappresentazione di un dramma familiare ambientato in una non precisamente definita area della Sardegna, ambiguità voluta dall’autore, che forse stimola una sorta di universalità del racconto pur mantenendo riconoscibile il brullo paesaggio dell’entroterra sardo. In realtà il film ha una sua complessità, a partire dalla caratterizzazione dei suoi personaggi. La protagonista è Anita (interpretata dalla bravissima esordiente Nora Stassi), una diciassettenne colta nel pieno del conflitto con il mondo esterno, una realtà che sembra incatenare il suo spirito libero e anticonformista. Il calore di questa adolescenza ribelle si scontra dunque con la ruvidità dell’ambiente, con quei colori tendenti al freddo che fanno risaltare la chioma riccia e fulva della ragazza, incanalando costantemente nell’inquadratura un gioco di contrasti che pone la sua figura in continua lotta con la realtà circostante e in particolare contro l’autorità, come mostra il suo frequente inveire contro forze militari stanziate nel suo territorio. Un film che può insomma riconoscersi pienamente nell’etichetta di “dramma punk agropastorale”, definizione del suo regista. Tuttavia, il conflitto individuale si allinea immediatamente con quello comunitario e sociale. Quelli ti ammazzano piano piano, dice Anita. Realizziamo che la sua rabbia non è unicamente frutto di una delicata fase di crescita, ma cela un dramma più profondo, legato alla sua famiglia, a una madre morta di leucemia e a un padre vittima dello stesso male. Da questo quadro emerge così un tema sociale, quasi di denuncia, quello di una provincia occupata da basi militari che sembrano in qualche modo coinvolte nella diffusione di queste malattie. Emerge qui la gravità di quella che suona come triste cronaca: come non pensare allo spettro dell’Ilva, agli investimenti industriali e scientifici sordi al grido di una popolazione ritenuta marginale, in definitiva vittima di un sistema che in molti casi non prevede dialogo o confronto. Una dinamica di complessa o assente comunicazione che nel film troviamo replicata nel rapporto tra Anita e i suoi parenti più vicini, come lo zio Gaetano, uomo ostile e alcolizzato che ha abbandonato il fratello, padre di lei, anche nel momento della malattia, a causa di screzi irrisolti (“una cosa molto sarda”, sottolinea Piredda). Emerge un’incapacità dei personaggi a risolvere i conflitti: individui intrappolati in una fase di costante scontro, fosse anche con la propria critica condizione di salute, o con il paesaggio circostante, che esprime con le sue asperità una condizione esistenziale segnata dagli stenti. Il film dunque, seppure freddo sotto vari punti di vista, è scaldato da un pulsante senso di umanità che emerge in tutta la sua struggente forza nel rapporto tra padre e figlia, uniti nella lotta contro la cattiva sorte. Lotta evidentemente vana, ma che non impedisce a quel calore di scaturire in inquadrature che esprimono dolore ma soprattutto affetto. L’agnello si arricchisce così di sfumature quasi leopardiane, mostrando una Natura spietata ma esorcizzata dal tentativo di costruire una fragile “social catena” di sentimenti filiali e solidarietà universale.
Michele Bellantuono