Dopo il sogno impossibile di The Florida Project, Sean Baker torna a rompere le righe del cinema indipendente con un film che riflette sull’industria del porno. Mikey Saber è un ex divo hard che dalla California fa ritorno nel paesino di nascita in Texas. Qui prova a riallacciare i rapporti con l’ex moglie e inizia a smerciare marijuana per campare. Fino all’incontro con la giovanissima Strawberry, cameriera in un negozio di donuts, in cui Mikey intravede un talento da performer a luci rosse, oltre che un’opportunità per rilanciare se stesso verso un rinnovato successo.
Baker riflette su un tema nodale del contemporaneo che parte inevitabilmente dal porno, ormai questione centrale rispetto a temi quali identità, fama e privacy, avvicinando Red Rocket a prodotti recenti come Pam&Tommy, serie Disney+ firmata tra gli altri da Seth Rogen, o il film svedese Pleasure, che ruota attorno ad una giovane aspirante pornostar (disponibile su MUBI). Baker, tra i maestri dell’indie movie americano insieme a Larry Clark e Harmony Korine, è forse il meno sfacciato dei tre, pur condividendone l’approccio sporco, fatto di immediatezza e improvvisazione, e l’interesse per le vite ai margini, per l’osceno, lo scabroso, il ripugnante.
Dopo la piega intimista di Starlet, a cui Red Rocket si lega a stretto giro, Baker torna a raccontare il fallimento dell’American Dream, inevitabilmente compromesso ma non del tutto distrutto dalla presidenza Trump, che riemerge con violenza, in tutta la sua volgarità, nelle realtà di periferia. Il regista di Tangerine abbandona gli iPhone e i supporti digitali per tornare a girare in 16 mm e raccontare la realtà circostante nelle sue derive più triviali, sporche, indecenti. Quell’incessante e morboso bisogno di guardare, di avere accesso a luoghi e corpi altrimenti inaccessibili, come la Disneyland di Un sogno chiamato Florida, che spiega l’uso di supporti infiltrabili come i telefoni cellulari.
Ma il porno ormai ha talmente impregnato la realtà circostante che non c’è bisogno di ricercarlo nei meandri oscuri di internet. Ce lo propinano in tv, per strada, sui social quotidianamente. Un abisso pornografico che ormai avvolge ogni cosa, da Trump che sbraita in tv in mezzo a reality e talk show, ai negozi di dolci chiamati “Donut Hole”. Non c’è nulla che non sia un’immagine di volgarità.
I personaggi di Sean Baker sono una versione addolcita dei “kids” di Larry Clark, sempre insoddisfatti, ma meno cinici. E il suo cinema conserva ancora una speranza di riuscita, un bagliore e un calore umano che si riflette nelle tinte calde delle coste californiane e dell’asfissiante fauna urbana di Los Angeles.
Red Rocket si pone allora a corollario di una filmografia progressivamente sempre più lucida e coerente, in cui la realtà trova uno spazio fisico per essere raccontata (non a caso Baker sceglie l’ex attore porno gay Simon Rex come protagonista), restituendo allo sguardo dello spettatore un mondo di macerie morali rivestite di cafoneria pacchiana che sbatte in faccia a chiunque e senza esitazione il proprio squallore, ma nel quale la nudità resta ancora lo scandalo più grande.
Chiara Zuccari