Saint Frances

La vita di Bridget è insignificante: ha 34 anni, è sola, non ha cresciuto una famiglia, non fa un lavoro prestigioso e si disprezza. Questo è il quadro poco caritatevole che ci viene fornito dopo nemmeno due minuti dall’inizio del film – con astuto trucco di sceneggiatura – attraverso le parole di un antipaticissimo coetaneo di Bridget, affermato uomo di successo e orgoglioso padre di famiglia. Per quanto poco caritatevole, però, Bridget si riconosce nell’umiliante rappresentazione. È delusa dal corso che ha preso la sua vita e, forse, non le dispiacerebbe troppo non essere mai nata.
Le sofferenze di Bridget sono però destinate a trovare un’ascoltatrice compassionevole e purificante nella piccola Frances, la tenerissima bambina a cui la ragazza deve fare da tata. Frances, nel corso del film, viene ad assumere sempre più la funzione di coscienza morale e spirituale di Bridget, una sorta di voce divina non giudicante formato bambina che ascolta e assolve dai peccati: Santa Frances, appunto.
Se la fede e l’esistenzialismo sono temi cardine del film, non sembrano esserlo però nella vita interiore di Bridget, che si autodefinisce femminista agnostica, non si concede di piangere e ostenta di non provare sentimenti, da lei svalutati come tratto generazionale proprio dei millennials.
Questa stessa tensione tra sacro e profano non è presente solo nelle differenze ideologiche dei protagonisti del film, ma ne è la filosofia alla base. Saint Frances, infatti, procede inesorabilmente a demistificare tutta una serie di concetti idealizzati della nostra cultura, a cominciare da quello della maternità: il film rifiuta la visione di una madre devota ai propri figli in modo assolutizzante e indiscusso, e rivendica addirittura il diritto delle madri a fantasticare truculenti infanticidi (si sottolinea fantasticare).
L’altro grande tema a essere de-idealizzato è quello dell’aborto. È la stessa sceneggiatrice/protagonista a spiegare che «c’è una notevole carenza di storie di aborto non traumatiche nel cinema e nella televisione […]. Sono stufa che l’aborto sia un tema tabù e ho pensato che avremmo potuto raffigurare perlomeno l’esperienza di una donna in modo onesto, sfumato e in certa misura divertente». Questo, sottolinea sempre la sceneggiatrice, non significa che l’aborto non trascini con sé dei sentimenti complicati, ma non necessariamente questi devono coinvolgere il senso di colpa.
L’onestà narrativa è forse il cuore di Saint Frances, che non si fa problemi a inquadrare continuamente escrezioni e condanna il moralismo di chi, per esempio, non vorrebbe che una madre allattasse in pubblico. Lo stesso fatto che Frances abbia due madri, piuttosto che una madre e un padre, è trattato con completa nonchalance e non è un tema centrale del film: la loro sessualità non è mai messa in discussione ed è completamente normalizzata, i veri ostacoli con cui si scontrano le due madri sono legati agli stessi problemi genitoriali in cui qualunque coppia potrebbe incorrere.
Questo stesso realismo, enfatizzato anche da una regia volutamente “sporca” e mossa, è espresso in tutta la sua sgradevolezza nella scrittura dei personaggi secondari, che si alternano a rappresentare esempi di classismo, bigottismo e sessismo, senza mai apparire stereotipati e con la fastidiosa sensazione che queste persone esistano realmente. Il tutto impreziosito da un montaggio che rispetta i tempi comici in modo esilarante, confezionando una dolcissima e profonda commedia indie che scalda il cuore.
Simone Coghi

Cinema Kappadue

16.30 - 19.00 - 21.30

Proiezione

14 aprile 2022

Regia

Alex Thompson

Durata

1h38min

Origine

USA, 2019