
Cinema in Circolo: Les Ogres di Léa Fehner
In esclusiva per i propri Soci, il Circolo del Cinema propone in streaming il film Les Ogres di Léa Fehner (Francia, 2016 – 144′), vincitore del Premio del Pubblico ai Film Festival di Rotterdam e Pesaro.
Quelli della compagnia Davaï Théâtre – una turbolenta tribù di artisti nella quale il lavoro, i legami familiari, l’amore e l’amicizia si mescolano con veemenza, scavalcando i confini tra la finzione del palcoscenico e la vita reale – vanno di città in città, con una tenda in spalla e il loro spettacolo a tracolla. E mettono in scena Cechov. Nelle nostre vite portano il sogno e il disordine. Sono degli orchi, dei giganti e ne hanno mangiati di teatro e di chilometri… Ma l’imminente arrivo di un bambino e il ritorno di un ex amante faranno rivivere le ferite che si pensava fossero ormai dimenticate.
Les Ogres sarà disponibile in streaming gratuito fino a lunedì 20 aprile 2020.
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Intervista a Léa Fehner
Com’è nato il desiderio di realizzare questo film?
Io sono cresciuta con il teatro viaggiante, di cui parla il mio film. Negli anni ’90 i miei genitori hanno intrapreso quest’avventura con una dozzina di camper, una tenda, una truppa variegata e stravagante e hanno fatto il giro della Francia con i loro spettacoli. Stranamente, quando ho deciso a mia volta di raccontare storie, credo di aver lasciato quest’ambiente per quello del cinema perché avevo paura. La paura delle strade vuote, fredde, dove si sfilava. La paura della rudezza di una vita in cui per parlare allo spettatore gli sputacchi di sopra, dove i bambini sono a conoscenza di qualsiasi aneddoto, dove si cresce tra grida, palcoscenico e gente ubriaca. E questo per non parlare di tutte le interferenze nel privato di ciascuno, della mancanza di melodie orecchiabili che cantano di cose insignificanti, delle frustrazioni che si sentono nei confronti di coloro che riescono meglio … Ma di recente, tutto si è invertito. Dove ho visto la galera, ho cominciato a vedere il coraggio, questa vicinanza con il pubblico mi ha provocato invidia. Gli eccessi hanno cominciato ad associarsi, per me, alla festa, alla vita. Così, alla fine del mio primo film, ho voluto filmare questa energia. Il mio primo film era serio, impegnato, e dopo averlo accompagnato a lungo nelle sale, ho avuto voglia di offrire qualcos’altro allo spettatore. Volevo fare un film gioioso e solare, ma felice insieme con insolenza e durezza. Ho voluto filmare questi uomini e queste donne che aboliscono il confine tra teatro e vita per vivere in maniera più radicale, per vivere con ritmi un po’ più frenetici.
Lei parla del suo progetto di un film solare, ma la vitalità che si sprigiona dal film è potente, certo, ma allegra, abbraccia la vita in ogni suo aspetto.
Forse perché io non sono interessata al culmine del successo di una compagnia, ma piuttosto a ciò che l’età potrebbe fare per questa compagnia. Io non descrivo il periodo infantile del loro desiderio, ma quando il desiderio freme per restare dentro di loro, quando bisogna provocarlo affinché resti in vita… Appena prima che scrivessi questo film, la compagnia dei miei genitori festeggiava i suoi venti anni di attività. Quell’anno era stato molto travagliato, di una violenza inaudita. Un membro della compagnia aveva perso il figlio di diciotto anni. Mio padre, aveva raggiunto quell’età in cui esitiamo tra il desiderio e l’abbandono. L’età in cui la fatica di questa professione inizia a farsi sentire. Ma la festa si è tenuta ed è stata pazzesca, incredibile, sfrenata. Trascorrendo questo giorno con loro, ho pensato che era quello che ci serviva, era necessario raccontarlo: questo modo di dire merda di fronte alla morte e al dolore attraverso le risa- te, la musica, l’eccesso; questa energia che epura la tristezza nella trasgressione e che minimizza la violenza della vita. L’età e i drammi avevano eroso l’arroganza e l’eccesso degli orchi della mia infanzia, eppure li ho visti sempre immersi nel desiderio di continuare a vi- vere, di mordicchiare il presente. Ma come continuiamo con i nostri morti? Come possiamo continuare con ciò che è morto in noi? Questa è la questione più ampia, più comune a tutti noi e che mi ha spinto a scrivere questo film.
Gli Orchi… è un nome che si adatta bene ai personaggi!
Questo titolo è stato come una spina dorsale nella nostra scrittura, per non lasciarci andare alla superficialità, per non farci sedurre dalla vitalità dei nostri personaggi.
Abbiamo voluto parlare di una voglia di vivere frizzante e poderosa. Ma era indispensabile non nascondere l’aspetto della mostruosità o della violenza che risiedeva in questo desiderio. I nostri personaggi dovevano essere di quelli di cui si potrebbe dire “Mi piacerebbe conoscerli bene, bere qualcosa con loro”, ma dovevamo farlo senza compiacenza, guardando sotto la superficie della loro voracità. Questi orchi di vita sono anche in grado di mangiare gli altri e occupare il loro posto! Ma questo è anche quello che può diventare interessante: far vedere degli esseri potenti e divertenti, indegni e incoerenti, ma amorevoli. Dare spazio all’ambiguità e all’ambivalenza. In qualche modo, parlare di orchi è anche rendersi conto che il problema dell’eccesso ha tanto a che fare con il teatro itinerante ma anche con l’intimità delle famiglie: il modo in cui alcuni occupano tutto lo spazio, il modo in cui l’amore può essere divorato…
È vero che al di là dell’aspetto del teatro itinerante, il film è innanzitutto un film sul collettivo e sulla famiglia?
Assolutamente. Qui tutte le generazioni si mescolano. I bambini formano un insieme selvaggio e libero, i giovani adulti hanno a che fare con il loro desiderio di responsabilità. E questo per non parlare dei padri che hanno molti limiti e prendono tutto il centro della scena, delle madri che sono a loro volta sublimi o sottomesse… Ci si ama e ci si fa del male. È forse questa la grande bellezza e il grande dolore delle famiglie: amarsi e non sapere fare altrimenti che farsi del male. Dunque il film parla di questo, sì, ma non solo dei legami di sangue. Perché qui la famiglia è quella che viene scelta, con cui ci s’incontra e con cui si lavora. Alla base dello spirito della troupe c’è un’utopia collettiva che va al di là del quadro di famiglia, che solleva la questione dell’amore nel senso più ampio. Detto questo, famiglia o troupe, ci son delle domande: il gruppo mi fa rinunciare alla mia libertà? O al contrario mi rende più forte e quindi più in grado di esercitare questa libertà?
Come si è sviluppato il processo di scrittura del film?
Ho iniziato a raccogliere molte storie sulle compagnie dei miei genitori e di altre compagnie teatrali itineranti. Ho fatto appello ai miei ricordi, ma naturalmente senza paura di com’erano cambiate le cose nel corso del tempo. Da questa materia prima, con la mia co-sceneggiatrice Catherine Paillé, abbiamo iniziato a romanzare gli eventi, a elaborare le situazioni per farne una storia da cinema. Era necessario che la storia fosse del tutto epica, pur rimanendo quotidiana, aggrappata alle falde dei personaggi che crescevano sotto le nostre dita. Molto presto ci siamo allontanati dalla cronaca, dal ritratto del luogo. Abbiamo voluto piuttosto che il romanticismo di queste scelte di vita fornisse respiro al film. Ma la cura del gruppo ci ha posto di fronte a questioni fondamentali. A questo proposito, due film ci hanno aiutato: Festen e Milou a maggio. Si tratta di film di gruppo, ma molto diversi tra di loro e stavamo cercando di essere esattamente a metà strada tra questi due poli, di coniugare la crudeltà dei sentimenti con la tenerezza di uno sguardo. Ci siamo divertiti molto a torcere le storie, a sfigurarle, a reinventarle. Il desiderio non è mai stato quello di essere fedele alla realtà, ma piuttosto di raggiungere la verità e l’aggressività, che il film potesse avere molto a che fare con Asghar Farhadi anziché con Asterix! In Francia spesso si oppongono il barocco e il realismo. Avrei preferito mostrare come i due concetti possano mescolarsi e trovare la sincerità di chi gioca una partita, la dolcezza di chi urla per tutto il tempo, l’amore di quelli che si lacerano.
Com’è possibile descrivere tanti personaggi diversi che devono coesistere sullo stesso piano?
Questa è stata la sfida. Far coesistere il collettivo e l’individuo. Il soggetto è al centro del film e ho voluto che la forma finale fosse all’unisono con questo tema. Abbiamo cercato di progettare scene che fossero di azioni multiple, dove il primo piano tessesse una linea drammatica mentre in secondo piano una storia sta per iniziare e che alla fine ognuno viene a mettere il suo pizzico di sale negli altri due. E tutto questo per lo più nel movimento, nella corsa, nella crisi o nella danza. Ma alla fine della prima scrittura sentivamo come una mancanza, un’ulteriore difficoltà a trovare questo concerto umano. Grazie ad un finanziamento della regione Midi-Pyrénées, ho deciso di far improvvisare a una decina di attori della compagnia dei miei genitori a partire da una bozza già scritta. Queste sessioni d’improvvisazione, che ho girato, si sono rivelate molto divertenti, generose, pazze. Ci hanno aiutato molto a trovare questa volubilità e come in questo guazzabuglio di parole non si riescono a dire le frasi tabù neanche quelle più brevi: io ho paura, io non voglio invecchiare, ti amo … C’è come una forma di pudore dietro questa profusione di parole in libertà.
Sapeva già dall’inizio che i suoi genitori e sua sorella avrebbero recitato nel film?
No, questo è davvero il culmine di un processo legato a queste improvvisazioni, durante le quali il nucleo familiare si è esibito con un’intensità che mi ha fatto riflettere. Sono stati molto generosi senza essere immodesti. Angosciati senza cadere nello psicodramma. A poco a poco mi sono resa conto, come ovvio, che dovevo accettare di giocare con il fuoco. È stata la cosa più coerente da fare, e allo stesso tempo completamente folle.
Perché folle?
Perché si sono messe in pericolo le relazioni che sono vive e fragili. Mio padre si è dovuto mettere nella posizione di essere guidato da sua figlia. È stato divertente scrivere a partire da una storia che è ancora in fase di scrittura. È stato come rischiare all’improvviso che qualcosa di intimo m’impedisse di sentire il diritto di andare troppo lontano. Ma penso che avessi bisogno di questa realtà scomoda che si mescola con la finzione di questo film. Sul set sono stata disturbata dal loro abbandono. E turbata dalla loro capacità di tradirsi, di reinventare un personaggio. In ogni caso, è così complicato filmare la propria famiglia? La cosa più fragile e più difficile è quella di amare i propri attori e che quest’amore risorga nel film. In qualche modo si può dire che gran parte del lavoro era già fatto.
Anche suo figlio recita nel film?
Sì. Questa è la storia sotto il tappeto di cui parla il film, ma sì. Mio figlio, i figli di mia sorella hanno recitato nel film. E il padre dei miei figli, Julien Chigot, ha curato il film.
Alla luce di quello che racconta il film, penso anche di avere bisogno di provare questa miscela tra la vita e il lavoro. Non ho tentato di proteggermi, ma con l’unico obiettivo di vedere come l’attrito tra realtà e finzione nutrisse il film. Profondamente.
Non è facile fare del proprio mestiere una passione come la nostra, anche divorante, quando si hanno bambini. Quindi, come se ne esce? Da parte mia, forse in realtà inserendo nella storia la mia famiglia. Scegliendo di fare un cinema di tribù, con la famiglia, ma anche con le persone che amiamo e che vengono ad aggiungersi alla nostra “troupe”. È una scommessa folle mescolare il tutto senza sacrificare nulla. Ma è anche un piacere. E spero che questo si rifletta sull’energia del film.
E il resto del casting?
Abbiamo cercato ovunque, nella compagnia dei miei genitori, nel cinema, nel circo, nella nostra vita quotidiana, in altre compagnie… Abbiamo fatto il casting per costituire una troupe, con le persone che sono storicamente presenti, delle persone che s’incontrano sul ciglio della strada, delle persone che s’innamorano. Ho scelto le persone che non necessariamente s’incollano ai ruoli scritti e alla sceneggiatura, ma ho pensato che il potere della loro personalità avrebbe inondato la storia e l’avventura del film. E inoltre, la sceneggiatura era ben scritta , molto precisa, dialogata – abbiamo avuto un piacere di parole con Caterina e Brigitte Sy (l’altra co-sceneggiatrice del film). Così ho anche cercato degli attori in grado di lasciare il segno, di portare la loro immaginazione e di inventare accanto a fianco di questa sceneggiatura affinché ci fosse una lotta sul set.
E Adèle Haenel ?
Ho letto da qualche parte che è stata paragonata a Depardieu. È strano perché mi sono imbattuta, non tanto tempo fa, in una lettera di Depardieu a Dewaere, che si era appena suicidato. Depardieu dice che in fondo non gliene importa. Non vuole andare oltre. E ha concluso dicendo: “Sono una bestia, non m’interessa, la morte non la conosco. Io sono la vita, la vita nella sua mostruosità”. Adèle è in grado di riprodurre questo, è vero. Lei è in grado di essere mostruosa e allo stesso tempo di trasmettere un amore folle. Guardate come lei riesce a farci ridere quando il suo uomo arriva a parlare della morte di suo figlio. È grossolano, è insolente. E, stranamente, grazie a lei è luminoso. È un sole quest’attrice. Con tanto di luce quanto di potere e di potenziale pericolo. In effetti, si potrebbe pensare che il termine “Gli Orchi” si riferisca a degli uomini nel mio film. Ma questo è completamente sbagliato. Le donne sono anche orchesse in piena potenza, in grado di dormire con il primo venuto che gli sta appresso, di lanciarsi da una macchina in corsa o di vendersi all’asta. Loro non si fermano… così abbiamo bisogno del potere di attrici come Adèle, ma anche come Lola Dueñas, Marion Bouvarel, Inès Fehner, per interpretare questi personaggi femminili. Va detto che in Adèle il desiderio collettivo è molto potente. Lei fa teatro e ama più di tutto mettersi al servizio di un’opera. Dove ho avuto molta fortuna, è nel fatto che Adèle, Lola e Marc Barbé hanno dimostrato di essere saltimbanchi nel loro modo di stare nel film. Loro non sono state tutte contaminate dal problema della riconoscibilità, della notorietà. Sul set, si sono completamente fuse nella troupe. Il loro impegno è stato naturale, intero, totale, senza guardrail… Proprio come quello che ho visto nel teatro itinerante.
Come ha affrontato la messa in scena di questo gruppo?
Due cose erano importanti. Innanzitutto la questione della produzione. Più vado avanti e più trovo che dove mettiamo i soldi è già la regìa allo stesso titolo delle varie scelte artistiche. Con Philippe Liegeois, il mio produttore, avevamo intenzione di trovare un prototipo di set che facesse da ponte tra l’esperienza del teatro itinerante e il cinema. Vale a dire rendere la pratica cinematografica più collettiva, meno gerarchizzata, che l’idea del gruppo lavori nel processo di creazione del film. Così abbiamo scelto di avere un tempo sequenziale di prove e di avere tutti gli attori per tutto il tempo sul set. È stata una sfida di produzione, ma per mettere in scena questo gruppo bisognava innanzitutto crearlo. La questione delle prove al cinema pone sempre dei problemi: si ha paura di rovinare le cose, perdendo l’ispirazione del momento e, allo stesso tempo, si compromette il processo di prove che c’è in teatro e che permette un’intimità tra gli attori. Così ho esitato ancora tra questi due metodi, ma con questo film avevo l’obiettivo adatto poiché le scene dello spettacolo giustificavano queste prove. Gli attori si sono incontrati per provare i canti, le danze, i vari elementi, se necessario, all’unisono. Con queste pratiche, le maschere cadono, le persone si lasciano andare, la dinamica di gruppo s’instaura. Il secondo giorno di riprese abbiamo girato la scena della parata ed era così emozionante vedere come questa troupe, lanciata nella città, era diventata un tutt’uno…
E la seconda cosa fondamentale della messa in scena?
Qualcosa che ha a che fare con il moviment … C’è un vecchietto ne Les Ailes du désir che parla a lungo in tedesco in una terra desolata e all’improvviso, guardandoci, ha detto in francese, “ci siamo imbarcati.” Per me è lì il cinema, una barca ubriaca in cui gli spettatori salgono a bordo. E questo si riflette nel modo in cui voglio indirizzare lo sguardo. Per Les Ogres era necessario che ci fosse una danza.
La macchina da presa si trovi a essere la mano che guida lo spettatore in un passo a due, un giro all’occorrenza tra Julien Poupard, il mio direttore della fotografia, e questa troupe che non si ferma mai. A tal fine abbiamo costruito una base di 360 gradi su cui potevamo essere molto liberi. Per fare luce abbiamo usato ciò che era già naturalmente presente nella scena: le ghirlande di lampadine e i proiettori del teatro, in modo che gli attori fossero in grado di inventare senza essere fermati da problemi d’illuminazione o dai macchinari. Ho cercato di lavorare secondo gli elementi del teatro itinerante: “la povertà di mezzi, la pertinenza degli effetti!”. Forse perché la storia mi ha toccato da vicino, avevo ancora più voglia che gli si trovasse un soffio lirico, epico. Che le emozioni siano più grandi della natura, che la macchina da presa abbracci così come i personaggi divorano.
La compagnia recita Cechov… perché proprio lui?
In primo luogo perché i testi che i miei personaggi hanno scelto sono delle farse. Questo non è banale, le persone del teatro itinerante hanno veramente a cuore la riduzione dello spazio di intimidazione tra l’opera e il pubblico. Quindi c’è, con questi testi, la forma di cabaret, è come se ci fosse un invito allegro a scoprire questo grande autore, senza aver paura… E poi c’è stata, all’inizio della scrittura di questa sceneggiatura, la scoperta di Platonov, un’opera giovanile. Questo personaggio ci ha influenzato tantissimo per la scrittura di Mr. Déloyal. Platonov è una sorta di fiamma sovversiva di libertà, difficile da vivere per gli altri e per se stesso. Lui vuole tutto, vuole troppo, come se non avesse mai lasciato questo stato di gioventù febbrile e insonne. C’è una casualità che non è presente nelle opere mature di Cechov. Uno humor. Un modo per ridere e un’esuberanza di quella più disperata, proprio come quello che stavamo cercando per la storia di Mr. Déloyal. L’altro aspetto di Cechov che mi piace particolarmente è che parla di comunità. I personaggi si trascinano l’un l’altro, vanno avanti insieme, espongono le loro contraddizioni. Non stiamo parlando qui di eroe che sfida solo gli uomini o le divinità. Si parla di vita quotidiana, di lavoro, degli esclusi, dei tristi, degli incerti, degli appassionati. Ogni personaggio cerca il suo margine di libertà all’interno di un gruppo, muovendosi o escludendosi autonomamente. Pertanto è vero che quella di Cechov, rimane per molti una musichetta intima con un po’ di dolce e di leggermente amaro. Io trovo, piuttosto, molta aria, un’enorme violenza e tutta in una volta una tenerezza selvaggia. Un amore folle per i suoi personaggi. Per la loro violenza, la loro stupidità, la loro bellezza, i loro eccessi e le loro paure. Per me quest’amore è come un’etica, un principio del lavoro: dare amore agli altri, pur rimanendo lucidi senza pietà. Questa è la sfida del cinema che io voglio riuscire a fare.
Cechov, la tenda, la compagnia, questo mondo… Ai suoi occhi sono là dentro come una sorta di nostalgia?
Assolutamente no. Questi uomini e donne sono creature del momento, totalmente impegnate fisicamente, emotivamente, intellettualmente, nel presente. Non esiste in essi la fine del mondo. I bambini continueranno sempre a nascere, i vecchi amanti ad amarsi, la tenda ad essere montata sotto altri cieli. È anche questo il teatro itinerante: preferire la condivisione al prestigio, il contatto all’eccellenza. Quindi sì, sono esseri che lottano in una società che pesa senza sosta i suoi valori di successo, di perfezione, di ordine e di ripiego su se stessa. Ma per me lottare contro il trionfale ritorno di questi valori non è passato, piuttosto si tratta di un’attualità interessante. Allo stesso tempo, quando dico questo, sembra terribilmente serio. Qui, se c’è la lotta, c’è attraverso il riso, c’è senza prendersi sul serio. E non è praticabile la loro utopia, si romperanno sempre i denti. Ma se non vitale, la loro avventura è viva…