Zama

Sulla costa di una remota colonia dell’impero di Spagna in Sud America, Don Diego de Zama, corregidor della Corona, alto burocrate in abiti ufficiali, scruta l’orizzonte. Attorno a lui, gruppi di donne indigene si fanno il bagno, nude, in quello che pare un clima di derisione dell’autorità coloniale. Zama, ultimo lavoro della regista argentina Lucrecia Martel e trasposizione dell’omonimo romanzo di Antonio di Benedetto, è un racconto storicamente ben collocabile (ambientato alla fine del XVIII secolo), eppure calato in una dimensione quasi atemporale, in una porzione di spazio che possiamo solo intuire (forse il Paraguay). Questa voluta mancanza di coordinate rende ancora più afosa e alienante la postazione di Don Diego, il magistrato incaricato di applicare la legge nella colonia. Compito che si rivela raramente necessario, in una quotidianità caratterizzata dalla costante ricerca di tentativi di fuga da un ruolo che è diventato triste condizione esistenziale.
Zama è sostanzialmente un esiliato, intrappolato da una burocrazia lenta e inefficiente lontano dalla famiglia. Per quanto l’uomo orienti ogni suo sforzo al fine di ottenere l’autorizzazione ufficiale a lasciare la sperduta colonia, il destino sembra remare in direzione opposta, rendendo il desiderio di trasferimento costantemente insoddisfatto, per ostacoli spesso ridicoli o assurdi. Don Diego continua così a sognare ingenuamente il suo ricollocamento nel Vecchio Mondo, in un’Europa che resta un miraggio variopinto e suggestivo. Una proiezione mentale fin troppo illusoria in effetti, dato che, come fa notare la nobile spagnola Luciana Piñares de Luenga, una degli ospiti di passaggio della colonia, l’Europa evoca bei ricordi sono in coloro che non vi sono mai stati. Zama viene appellato infatti come “americano”, in quanto originario del Nuovo Mondo. Questo rende la sua identità un qualcosa di indefinito, essendo nativo ma al contempo proteso verso il prestigio (posticcio) di una radice europea. Nasce da qui la lenta sofferenza del protagonista, come spiega la regista: «L’attesa non esiste senza questa questione dell’identità. Se qualcuno non ci crede, non ha motivo di sperare. Più marcato è il senso di identità, più difficile è soddisfare quella speranza». Nel rapporto conflittuale di Zama con le proprie origini, la Martel trasferisce il tormento ancora attuale per le radici dello stesso popolo argentino.
Stilisticamente il film si distingue anche per una certa vena satirica, che ben accompagna l’atmosfera di assurdità. Dopo essere stato chiamato “americano” da un funzionario di grado inferiore al suo, Zama lo aggredisce fisicamente, per poi scoprire che in realtà il giovane come punizione verrà trasferito nella stessa città per cui lui aveva fatto richiesta. Il desiderio insoddisfatto di Zama poi si manifesta anche con sintomi di impotenza, ad esempio nel tentativo fallimentare di seduzione della nobildonna Luciana. L’estrema speranza resterà quella di catturare il fantomatico criminale Vicuña Porto, temuto dagli abitanti della colonia per la sua violenza e noto per la leggendaria capacità di sfuggire alle esecuzioni. La figura di Porto è perfettamente integrata nel tessuto assurdo del film: un uomo fatto più di dicerie che di carne, un bersaglio invisibile, forse inesistente.
Un ulteriore elemento di questa composizione dell’assurdo, che ricorda la sensibilità esistenzialista di scrittori come Camus e Kafka, ma anche il Buzzati de Il deserto dei Tartari che, proprio come il romanzo Zama, potremmo dire dedicato “alle vittime dell’attesa”.
Michele Bellantuono

Cinema Kappadue

16.30 - 19.00 - 21.30

Proiezione

26 gennaio 2023

Regia

Lucrecia Martel

Durata

1h55min

Origine

Argentina, Brasile, Spagna, Francia, Messico, Usa, Paesi Bassi, Portogallo, 2017