FESTIVAL – CRONACHE DI UN LIDOFILO A CANNES

Affinità e divergenze tra Palme e Leoni

di Simone Coghi

Partiamo dalla topologia (breve digressione). Affinità: il lungomare, le spiagge, il sole. Divergenze: il Lido di Venezia, quando non è tempo di festival, è un paesaggio rarefatto, con le sue spiagge cristallizzate agli anni Sessanta quando Pasolini sotto quelli stessi ombrelloni intervistava la Fallaci, le strade quasi vuote e l’atmosfera incantata e irreale. Così, quando il festival prorompe in tutta la sua irruenza, il Lido si popola di cinefili che assumono de-facto pieni poteri su quella terra, trasformandola in un’oasi estranea al mondo dove tutto è cinema e niente più. Pellegrini da tutto il mondo si riuniscono per due settimane tra quei paesaggi, per poi restituirli nuovamente al loro tempo sospeso dopo aver compiuto i propri strani rituali. Chiunque abbia partecipato alla Mostra sa il potere che il Lido esercita sui suoi partecipanti, l’utopia romantica di un territorio radicalmente trasfigurato attraverso la gente che lo vive: il Lido diventa cinema e il cinema diventa Lido – e chi vi prende parte non può che mutarsi, da cinefilo, in “lidofilo”.

Ciò non accade a Cannes. La città balneare della Costa Azzurra è, per l’appunto, una città – e una città non si lascia incantare. Tuttalpiù, una città si barrica, transenna, dirotta, incanala, devia, riorienta. Le pigre passeggiate del cinefilo-flâneur sono intralciate da continui reindirizzamenti di traffico, vigili che fanno fluire e defluire le folle e barricate che frenano i vagheggi urbani, ostacolando anche le fantasticherie cinefile che si accumulano tra una visione e l’altra. La via più sicura è quella di non allontanarsi mai dall’oasi dedicata ai cinefili – che seppur non prenda le dimensioni dell’intera città, pur sempre di oasi si tratta. E non è un’oasi da poco, con il lungomare della Riviera francese, l’invasione glamour, l’eco mondana dei party radical-chic e le sdraio sulla spiaggia per le proiezioni all’aperto.

Ma veniamo ai film. Affinità: il lidofilo può dilettarsi quanto vuole a tracciare i paragoni tra le sezioni di Cannes e quelle Veneziane (“Ah quindi la Quinzaine sarebbero le Giornate degli Autori, e la Sala Debussy equivale alla Darsena”), ma la verità è che [Divergenze:] la selezione di film di Venezia non regge il confronto con quella di Cannes.

La mia esperienza in Riviera si apre subito con O Agente Secreto, film stralunato e polimorfo di Kleber Mendonça Filho, regista brasiliano che si era fatto apprezzare per Bacurau, che qui confeziona un film delirante nel senso etimologico: il film esce continuamente dal solco tracciato dalla sua stessa storia, per perdersi in folli divagazioni e andando in mille direzioni, creando un bel pasticcio, che sì è pasticciato, ma bello e divertente. La giornata prosegue con uno dei migliori film di quei giorni, che giustamente va a conquistarsi il Gran Premio della Giuria di Un Certain Regard: Un Poeta, di Simón Mesa Soto. Il film è una tragicommedia che segue un protagonista inetto, perdente e pieno di antipatici giri di parole e intellettualizzazioni per giustificare i propri fallimenti – ma il film ha tutta la poesia che il suo protagonista (forse) manca, e – giusto menzionarlo – mi ha ridotto a un colabrodo di lacrime. Per finire questa rapida showreel da Cannes (in cui si vorrebbe tanto menzionare anche la dolcezza di Romerìa, il western onirico dei nostri mitici Zoppis e Rigo de Righi Testa o Croce?, l’aspra denuncia di Sorry, Baby e la magia nordica di The Love that Remains), mi permetto uno scorrettissimo paragone tra l’ottimo Sentimental Value di Joachim Trier e il deludente Jay Kelly di Noah Baumbach. Entrambi i registi sono alle prese con le storie di star del cinema che devono fare i conti con la propria vita e carriera, ma Cannes sostanzialmente va a ridicolizzare la selezione veneziana dove il George Clooney di Baumbach, alle prese con gli stessi struggimenti di Stellan Skarsgård nel film di Trier, non riesce a trasmettere un decimo della sua intensità emotiva, ma al massimo un’intensa abbronzatura arancione e sorriso alla Carlo Conti che di emotivo ha gran poco.

Non avendo colpevolmente visto la Palma d’Oro It was Just an Accident (ma con grandissime aspettative per la sua uscita), concludo con un po’ di redenzione per Venezia, che per una volta mi trova d’accordo sul film premiato con il Leone. Father Mother Sister Brother è una storia di famiglie spezzate, in cui silenzi imbarazzati più frequenti dei dialoghi diventano la cifra stilistica della sceneggiatura. Invece di scivolare nel dramma o nel moralismo, Jim Jarmusch offre una meditazione poetica, ironica e distaccata sulla famiglia tradizionale – osservata da lontano, con un sorriso zen, accogliendo la frattura e lasciando alle spalle i valori convenzionali, con dei silenzi che, tra le vie del Lido, continuano a echeggiare anche dopo i titoli di coda.