In principio c’era la musica

Il brodo primordiale di P.T. Anderson

di Marika Zandanel

L’America come un dio capriccioso, pagano e pagante la ricchezza di chi gli chiede la libertà, mai assoluta e sempre schiava del patto che si stipula fra le parti. La cifra del sogno americano è quella contabile in soldi, quelli che Daniel Day-Lewis ricerca in There Will Be Blood (2017) e quelli che Cooper Hoffman rincorre in Licorice Pizza (2021). Nei film di Paul Thomas Anderson tutto vale qualcosa, un capitale che non si può mai regalare e che si può soltanto gestire sapientemente, scegliendo cosa siamo disposti a pagare e cosa no.

Il finale di Magnolia (1999) è chiaro su questo punto, battezzandoci per la prima volta a una realtà che mai ci saremmo immaginati così contrattuale e più umana che mai, una cosa che solo le persone possono stringere. Le relazioni esistono sul fragile e feroce equilibrio del compromesso, quantomeno quello che siamo disposti a sopportare, un tacito accordo con l’altro, come quello che abbiamo fatto con il capitalismo tanto tempo fa. Che sia un rischio calcolato al millimetro e ci servano dei funghi velenosi (Phantom Thread, 2017) oppure che sia sopravvivere al caso di una pioggia di rane (Magnolia): non vince chi ci tiene sotto scacco (come apparentemente sembrerebbe), ma chi sa fino a che punto può spingersi, portando la partita a parità.

Chi conosce Paul Thomas Anderson sa che è impossibile pensare al racconto dei suoi personaggi senza che questo sia anche il racconto dell’essenza di una nazione cannibale, che per far mangiare i propri figli ha sempre spremuto il sangue di chissà chi altro. Eppure, l’eleganza della sua macchina da presa non è solo il ritratto della spietata realtà è o, peggio ancora, la spicciola giustificazione di una violenza risaputa, la ricerca dei diamanti insanguinati. Forse solo Jhon C. Reilly in Magnolia è libero da tutto questo, un modello quasi impossibile da raggiungere, l’accettazione del fatto che alla base del compromesso più gretto vacilli sempre una certa voglia d’amore, di riconoscimento. Finiamo sempre lì, a questo film in cui suona uno dei pezzi più belli (e conosciuti) che mi permette di dire quanto il linguaggio musicale, oltre quello estetico, sia l’altro abito con cui Paul Thomas Anderson vuole raccontare l’America e gli stati emotivi di chi la abita. 

Quando al liceo scoprii la cantante Fiona Apple grazie a Left Hand Kisses (2016) in featuring con Andrew Bird non sapevo che fosse stata la moglie del regista, non sapevo che lui avesse girato per lei diversi videoclip o lo avesse fatto anche per i Radiohead. Quando è arrivato Licorice Pizza oramai sapevo che aveva prestato il suo occhio anche per i video delle Haim. Ora, invece, aspettavo impaziente che uscisse Wall of Eyes, il nuovo singolo dei The Smile, il gruppo nato dai già Radiohead Thom Yorke e Jonny Greenwood (da anni fidato compositore delle colonne sonore del regista).

Rimane il fatto che per un certo tempo io abbia ignorato un mo(n)do intero che il regista sembra aver utilizzato per sopportare le contraddizioni della realtà con cui i suoi personaggi hanno a che fare. Quella della musica è una voragine da recuperare in confronto alla parsimonia della filmografia: più di una ventina di videoclip girati contro un totale di nove film, senza contare le colonne sonore che spesso hanno degli spazi musicali abbastanza lunghi e riducibili a video musicali (vedere Punch Drunk Love, 2002). Ci si perde nelle geometrie pulite che disegna ad ogni inquadratura musicale, in contrasto con chi ci si muove dentro e che non si accorge di ciò che gli succede intorno, come a paventare che il mondo di lì a poco lo chiami a calarsi nella realtà. È come se gli artisti debbano essere ripresi in una condizione ancora primitiva rispetto al primo impatto col mondo, sono visti nel loro brodo primordiale. Paul Thomas Anderson, attraverso la musica, sospende quello che mette in scena poi, ovvero la conquista smaniosa del riconoscimento che passa necessariamente attraverso il rapporto fra due persone.

Nel 2015 Paul Thomas Anderson ci chiede di entrare ancora più sottopelle con Junun, che ha tutto e poco delle cose che ci potremmo aspettare: un videoclip, un documentario musicale, quasi la raccolta di filmati familiari. Il regista va in India per riprendere una jam session (fra i componenti il compositore israeliano Shye Ben Tzur e il fedelissimo Jonny Greenwood) che sembra più il principio di qualsiasi processo creativo e non solo il processo creativo stesso. Sembra la musica di tutte le musiche, mentre Anderson cerca di osservare in disparte e accostarsi al paesaggio.

In Anima (2019), cortometraggio dedicato al quarto album di Thom Yorke come solista, è impossibile non riconoscere questa attitudine esistenzialista e vedere come il cantante-persona sembri l’unico a dover imparare cose, a non essere ancora stato gettato nel mondo, un’anima ancora non scritta.

Wall of Eyes, fresco di uscita per i The Smile, oltre ad essere un pezzo meraviglioso, ha anche lui questo privilegio, quello di dirci, attraverso il videoclip del regista losangelino, che c’è una dimensione primitiva, ancor prima della relazione complicata col resto del mondo, che non ha bisogno di alcun compromesso con l’altro. Le geometrie di Daydreaming (videoclip per i Radiohead del 2016) si fanno più complesse e non c’è così insistenza da parte del caratteristico piano sequenza: il bianco e nero e il “muro di occhi” che vediamo colgono l’essenza di due sensi, la vista e l’udito, che a quanto pare erano un tutt’uno prima di separarsi.