La superficie irrequieta dell’immagine

Camera e carboncino, di William Kentridge

di Francesco Lughezzani

A novembre di un paio d’anni fa camminavo tra le palme di Parco del Gianicolo, a Roma, quando decisi di raggiungere il fiume per passeggiare sul Lungotevere. A pochi metri dal luogo in cui mi trovavo c’era Ponte Sisto e percorrendolo vidi quelli che sembravano degli enormi murales: cavalieri, buoi, personaggi storici presenti e passati e persino Anita Ekberg e Marcello Mastroianni, ritratti come figure che ricalcavano lo stile di un bassorilievo della Roma antica. Il muraglione che fronteggia il fiume era dominato da questi profili, alti anche dieci metri, lungo un sentiero di immagini che si estendeva per tutta Piazza Tevere. Impiegai molto tempo ad attraversarla, cercando di capire com’era stata realizzata l’opera.

Non conoscevo molto bene William Kentridge e rimasi stupito al constatare che le figure fossero state ricavate dalla patina di sporcizia che ricopriva i muraglioni, diventata per l’occasione l’inchiostro dell’artista, mentre la tela bianca era il muro stesso, ripulito da ogni traccia di residui biologici che negli anni si accumulano inevitabilmente sulla superficie della pietra. Nel suo lavoro l’artista aveva condensato millenni di storia, dall’antichità all’età contemporanea, conducendo Triumphs and Laments – questo il titolo dell’epopea site-specific con cui ha ritratto la città – a estendersi lungo una continuità iconografica destinata a scomparire in pochi anni, cancellata dal tempo e assorbita dalle tracce della vita che scorre lungo il fiume. Realizzata con la tecnica dell’idropulitura e terminata nel 2016, l’opera sarebbe dovuta sopravvivere per almeno sette anni ma sta scomparendo prima del previsto, assorbita dalla crescita batterica e dall’inquinamento. Un destino reso più rapido ma comunque inevitabile nelle intenzioni dell’autore, fin dal principio: questa ricercata evanescenza svela alcuni indizi sul rapporto dell’artista sudafricano con l’immagine, intesa non solo come frutto di un atto creativo, ma come documento, storico e personale al tempo stesso.

Kentridge nasce nel 1955 a Johannesburg, durante gli anni più sanguinosi della segregazione razziale che condannava all’apartheid buona parte della popolazione. William è figlio di avvocati, da sempre in prima linea sul fronte dei diritti civili. Il padre Sydney e la madre Felicia hanno difeso in tribunale nella loro lunga carriera tanti attivisti e cittadini: rappresentarono anche Nelson Mandela e Steve Biko. Fin da piccolo William venne accompagnato nei musei della città ad ammirare i dipinti di Cézanne, di Matisse, di Modigliani. All’arte figurativa è stato iniziato anche attraverso il vivace ambiente culturale che ruotava attorno alla sua famiglia, composto da tanti artisti che sovente condividevano lo stesso fervore civile e politico dei genitori. C’è un episodio in particolare che l’artista racconta spesso e che segnò per sempre il suo sguardo. All’età di sei anni William entrò nello studio del padre. Quel pomeriggio era in cerca di cioccolatini e vide una scatola di latta, gialla, che svettava sulla scrivania. La scatola però non conteneva dolci, ma fotografie: erano foto di corpi, cadaveri di manifestanti uccisi durante il massacro di Sharpeville, avvenuto il 21 marzo 1960, quando la polizia fece fuoco sulle migliaia di persone che protestavano, uccidendone oltre settanta. C’erano immagini di cadaveri decapitati e persone ferite alle spalle con colpi d’arma da fuoco. Il padre stava indagando da mesi sull’eccidio per accertare le responsabilità dei carnefici, nel corso di un’inchiesta che si sarebbe conclusa solo molti anni dopo. L’effetto di quella scoperta sconvolse la sua percezione del mondo. Davanti a lui c’erano le prove fotografiche di una violenza mai vista, diversa da ciò a cui aveva fino ad allora assistito. Non fu l’ultima volta in cui, durante la sua infanzia, incrociò l’iconografia della morte e del dolore che in quegli anni dominava non solo le pagine dei quotidiani, ma anche la vita di ogni giorno. Era una violenza mediata dall’immagine dunque, non sperimentata sulla propria pelle.

L’ambiente privilegiato in cui William crebbe e studiò, nella sua giovinezza a Johannesburg, fu sempre velato dalla consapevolezza del dramma in cui la storia della società sudafricana versava. Durante la sua formazione all’Università Witwatersrand, nella capitale – si laureerà in Scienze politiche e Studi Africani – fondò all’età di vent’anni insieme ad altri studenti la Junction Avenue Theatre Company, nel 1976[1]. La prima prova come attore sul palco del Nunnery Theatre fu la messa in scena di Ubu Rex, nel ruolo di Captain Bordure: lo spettacolo si era ispirato con buona dose di libertà all’omonima opera di Alfred Jarry e metteva in scena la presa del potere del regicida Padre Ubu, violenta fin dal linguaggio usato in origine da Jarry, spesso volgare e spinto all’eccesso, riversato nella riscrittura della drammaturgia. Il clima politico non era certo cambiato negli anni Settanta e il Sudafrica guidato dal National Party diventava sempre più isolato internazionalmente: in un ambiente privilegiato e progressista – a maggioranza bianca – come quello dell’università, quel laboratorio teatrale divenne un luogo di protesta creativa in cui per la prima volta operava una compagnia composta da attori e autori scelti senza alcuna distinzione razziale, allo scopo di mettere in scena opere esplicitamente politiche.

Durante la seconda metà degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, William si cimenterà come attore ma anche come sceneggiatore, scenografo e regista. Negli stessi anni, terminati gli studi universitari, decise di iscriversi all’Accademia di Belle Arti di Johannesburg, per tentare di percorrere ogni possibile espressione di un talento che faticava a intraprendere un percorso compiuto. Nell’ambiente accademico, il giovane si pose criticamente contro l’utilizzo della pittura a olio preferendo il disegno a carboncino, che lo accompagnerà per tutta la produzione successiva. La tecnica a carboncino gli permetteva di creare, cancellare, riplasmare le forme, in un processo di continua metamorfosi e riscrittura del proprio immaginario che rifletteva il suo rapporto con la storia e il presente. Si specializzò anche in incisione e ottenne i primi riconoscimenti come artista ma, ancora una volta, quel linguaggio non bastò più e a trent’anni Kentridge decise di raggiungere Parigi per studiare l’arte del mimo con uno dei maestri del teatro contemporaneo, Jacques Lecoq. Kentridge non abbandonerà mai il teatro ma alla metà degli Ottanta deciderà di tornare in Sudafrica, a lavorare per l’industria cinematografica come assistente di produzione. È un ruolo che abbandonerà molto presto e appena passati i trent’anni, acquisita una buona esperienza in arti e professioni diverse, maturò un vivo interesse per l’animazione. Utilizzando il disegno a carboncino e la tecnica della stop motion, William iniziò a raccontare il suo presente, digerendolo e rielaborandolo attraverso charcoal e macchina da presa, che diventano i veicoli di una destrutturazione progressiva di situazioni, personaggi, suggestioni.

I lavori realizzati nella serie Drawings for Projection (1989-2011) – dieci cortometraggi d’animazione realizzati interamente a mano – raccontano l’apartheid e il sottile tessuto che collega il dramma collettivo alla memoria personale dell’artista. William stende un foglio di carta bianca, disegna, filma pochi fotogrammi di pellicola. Poi cancella, traccia nuovi segni e filma ancora e ancora. Il ciclo si ripete fino al termine dell’opera. Non c’è pianificazione né storyboard, solo alcune immagini che costituiscono il punto di partenza da cui sviscerare l’opera. Al termine del processo rimane il foglio, con impressa l’ultima immagine. Solo una. Il processo creativo di William Kentridge prevede una continua metamorfosi delle forme, il disegno non può rimanere statico: per lasciare un’impronta di questo mutamento interviene il mezzo cinematografico, testimone del flusso di coscienza, che fissa le immagini nella mente dell’artista. Può sembrare un rapporto contraddittorio, quasi paradossale, con un’immagine creata e distrutta al tempo stesso, eppure il meccanismo diventa necessario per definire l’atto creativo come traccia di una realtà in perpetuo mutamento, che scardina le certezze della Storia. Felix in Exile (1994) è uno dei cortometraggi della serie Drawings for Projection che meglio rappresenta il rapporto tra la (post)memoria personale di Kentridge e la memoria storica del suo paese[2]. L’opera presenta un dialogo tra due dimensioni: quella di Felix Teitlebaum, alter ego dell’artista, che si muove, nudo, nella camera da letto di un albergo parigino. Dentro a una valigia, Felix trova sparsi i disegni di Nandi, la protagonista di un altro spazio ma del medesimo tempo. Nandi osserva il Sudafrica attraverso un cannocchiale che svela corpi feriti, laceri e sanguinanti, assorbiti dal suolo che li fa scomparire progressivamente, non lasciando alcuna traccia. La documentazione delle violenze dell’apartheid, degli stupri e degli assassinii diventa il ponte che permette a Nandi e Felix di comunicare, di specchiarsi nel volto dell’altro e di incontrarsi, solo per un attimo. Mentre la stanza di Felix si riempie dei disegni di Nandi la protagonista osserva un cielo notturno, nel quale gli astri si congiungono per formare il profilo dei cadaveri da lei disegnati. I corpi nudi di Felix e Nandi si incontreranno oltre lo specchio, prima che la donna venga colpita anch’essa e si accasci al suolo. Lasciando Felix solo, nella stanza ora vuota. L’opera si costruisce attraverso una collezione di ricordi personali, intrecciati alle cronache di quegli anni e al recente passato. Ciò che alimenta queste animazioni sperimentali è un dolore che circonda Kentridge fin dall’infanzia a Johannesburg, luogo amato e odiato al tempo stesso. Il dolore diventa un materiale grezzo da cui partire per sviluppare un’immagine che sia una forma compassionevole e allo stesso tempo traumatica di svelamento: la realtà e la memoria della violenza passata e presente si intrecciano, dissolvendo le certezze della percezione. L’immagine non può che fluire continuamente, per elaborare il trauma delle atrocità dell’apartheid e delineare una testimonianza nuova per gli eventi di una vita, attraverso la lente dell’artista. Che, spero, non fermerà mai il suo carboncino.

NOTE 

[1] Per approfondire si veda: E. Del Prete, William Kentridge, Milano, Doppiozero, 2016.

[2] Sul concetto di postmemoria applicato all’opera di Kentridge si veda: B. Karam, William Kentridge’s animated Drawings for Projection as a postmemorial aesthetic, in «de arte», vol. 49, n. 90, gennaio 2013, pp. 4-23.1