Dal Vangelo secondo Arturo
Il cinema iconoclasta del messicano Ripstein
di Luca Romeo
Dio salvi Ripstein, anche se lui, probabilmente, non ricambierebbe il favore. Arturo Ripstein è un “ateo protestante”, dove il secondo aggettivo non si riferisce a una religiosità di ispirazione luterana, bensì a un desiderio rivoltoso di non tenere la bocca chiusa. O, nel suo caso, la cinepresa spenta. Così almeno è il Ripstein cinematografico: un autore che usa la settima arte come un’arma sempre puntata contro le istituzioni cardine delle società occidentali: religione e famiglia su tutte.
Ha il nome del più famoso re e paladino del ciclo britannico e un cognome impossibile da immaginare senza accento tedesco, eppure il cineasta è un messicano doc, cresciuto niente meno che come spalla di Buñuel – a 19 anni era assistente del maestro surrealista sul set di L’angelo sterminatore – e divenuto, a quasi 80 anni, uno dei pilastri del cinema messicano. Fin da giovanissimo, Ripstein y Rosen (questo il cognome completo) sembra aver imparato la lezione buñueliana: il cinema è arte, ma anche strumento per colpire il potere, soprattutto quello borghese e clericale.
Così il giovane regista, che ha origini ebraiche, a trent’anni regala al mondo un’autentica perla come El Santo Oficio (1973), un film sull’Inquisizione cattolica che nell’età moderna dava la caccia agli ebrei per condurli al rogo. Protagonista è la famiglia Carvajal, di fede giudea, ma che finge sottomissione ai precetti cristiani. È in quest’opera, fortemente critica nei confronti del clero e dell’ottusità cristiana, che Ripstein fa dire a un personaggio la battuta: «L’unica religione possibile è la ricerca della felicità». Con o senza Dio, verrebbe da aggiungere. Non passano molti anni ed è la volta de La viuda negra (1977), in cui il dogma del celibato di un prete viene messo a dura prova dalla presenza della bella Matea. Questa volta il rigore e l’austerità del giovane Ripstein virano verso il grottesco, con il fisico scultoreo di Isela Vega che diventa padrone della scena e della sceneggiatura, facendo assomigliare questo film (comunque riuscito) a una commedia sexy all’italiana, dove però, al posto delle battutacce di Banfi, c’è una profonda riflessione sulla religione, la religiosità e la «fede cieca in poveri miti», come avrebbe cantato Guccini qualche anno più tardi. Il finale del film, che sfiora l’assurdo, resta una delle vette massime del cinema latinoamericano.
Come non citare, poi, El lugar sin límites (1977), in cui vengono affrontati con maturità e precisione quasi maniacale i temi della transessualità, della prostituzione e della misoginia. Non è un caso che questo lungometraggio si apra con una citazione del Faust di Goethe: là dove il poeta dovrebbe invocare le muse per ottenere l’ispirazione, Ripstein invoca Mefistofele per chiarire al suo pubblico, già dal proemio, che la vita è un inferno. «Non ci sono poteri buoni», cantava De André, e infatti stavolta il regista messicano punta il dito contro il potere politico: l’autorità – temporale o spirituale che sia – è nemica del cineasta. Eccolo qui il caposaldo dell’opera ripsteiniana: quel pessimismo cosmico caro a Leopardi rivive in un artista di Città del Messico e affiora (senza farsi troppo pregare) nella maggior parte dei suoi film. Tragedie con finali terribili, dove le cose vanno male e dove i personaggi, già disperati, non hanno speranza di migliorare la propria condizione.
E allora veniamo a quello che forse è il capolavoro di Ripstein e torniamo indietro fino al 1972, quando usciva El castillo de la pureza. Esercizio per i cinefili d’oggi: c’è un padre che costringe la propria famiglia a rimanere chiusa in casa per tutta la vita, lui è l’unico che può uscire, mentre i figli non hanno la minima idea di che cosa succeda oltre le mura domestiche. Di che film si tratta? I più avranno pensato a Dogtooth di Lanthimos, ebbene: risposta sbagliata. La stessa trama, grossomodo, è quella della pellicola di Ripstein appena citata. Il particolare terribile è che per scrivere questa sceneggiatura, il regista messicano si è lasciato ispirare da un caso di cronaca nera accaduto realmente nella capitale centroamericana.
Tutti i titoli citati fin qui sono rintracciabili sulla piattaforma MUBI, così come Cadena perpetua (1978), incentrato sulla storia di un criminale e della sua coscienza e El imperio de la fortuna (1986) che sfiora il realismo magico caro a Gabriel García Márquez e sperimentato da quasi tutti gli artisti latinoamericani.
Cosa resterà di questo autore in Italia ancora sconosciuto? Ripstein è cinema messicano prima del “boom” degli ultimi decenni, ci dimostra che esisteva Cinema (e che Cinema!) un po’ più a sud di Hollywood anche prima dell’avvento dei vari Cuarón, del Toro e Iñárritu.
Ma torniamo all’infinito scontro tra Ripstein e lo Stato, Ripstein contro la morale e Ripstein contro Dio. Diciamo la verità: il cineasta non si è dichiarato ateo, tanto meno anarchico o amante dello scandalo. Ripstein, per sessanta dei suoi ottant’anni, ha lasciato parlare i suoi film e in ognuno di questi ha depositato i suoi dubbi, le sue ansie e il suo pessimismo che è figlio di una ricerca infinita e interminabile verso la vera e unica religione possibile. Già, per questo Ripstein è un classico, perché anche nella disperazione, nella violenza più cruda e nella miseria cerca un barlume di felicità. E non c’è Faust che tenga: anche all’inferno si annida la fioca luce che ci può rendere felici. E poco importa se nei suoi film il lieto fine è una chimera: l’importane è non smettere di cercare. Del resto, è l’unica religione possibile.