I DESERTI DEL CINEMA

Polvere di stelle, orizzonti di lacrime

di Andrea Bianchi

Il futuro al cinema è spesso un disastro. Ci piace tanto guardarlo forse perché ci parla del presente più di quanto vogliamo ammettere. Non è solo spettacolo, non è semplice evasione. Queste storie di mondi finiti, di civiltà in rovina, hanno qualcosa che ci riguarda da vicino, che ci inquieta e ci spinge a fare i conti con le nostre stesse paure.

Consideriamo questi titoli, per dire: Mad Max: Fury Road, Dune, Nausicaä della Valle del Vento, e poi aggiungerei anche Snowpiercer, The Road. Opere diverse per origine, stile, ambizioni, ma unite da un ambiente compromesso. Deserti, macerie, terre spopolate, desolate. Non è difficile vederci, dietro l’effetto speciale, le nostre paure di oggi. La desertificazione, la mancanza d’acqua, il disastro ambientale. Problemi che non sono più faccenda di pochi, ma che entrano nel discorso pubblico, nella coscienza comune.

Il cinema non “indovina” niente, sia chiaro. Non è un profeta. Ma registra, coglie, amplifica. Funziona come un reagente, rivelando i problemi nascosti del nostro presente. Questi mondi altri, questi futuri funesti, sono proiezioni, trasfigurazioni del nostro qui e ora. Trasfigurazioni, certo, ma non per questo meno importanti. Anzi, forse proprio la trasfigurazione, l’eccesso, la stilizzazione, ci fanno vedere meglio, mettere a fuoco quello che altrimenti resterebbe nascosto, indistinto, in ombra.

La tecnologia non ci salverà. Nei mondi dopo la fine, la tecnologia non è la soluzione, ma parte del problema. O meglio, è un rimedio, un pezzo aggiunto al corpo, un tentativo disperato di adattarsi a un ambiente diventato ostile. Le tute dei Fremen in Dune, per esempio. Il simbolo di una vita grama, di una resistenza forzata, di una intelligenza umana ridotta a inseguire la pura sopravvivenza, costretta a escogitare un modo per riciclare e bere il prodotto del proprio apparato escretore. Quegli studi, quei progetti veri che prendono spunto da queste visioni del futuro nero, cercando di cavare acqua dall’aria o imitare i modi di vivere degli insetti del deserto, sono la prova che il cinema che racconta la fine del mondo non è poi così lontano dalla nostra realtà.

Poi c’è la fuga. La fuga nello spazio, andare a vivere su Marte. Altra illusione, altro sintomo. La fuga come non voler vedere le responsabilità, come scansare il problema. Invece di affrontare il disastro, di cambiare strada, il magnate sogna di scappare dalla nave che affonda. Come in Snowpiercer, quel treno che corre su un deserto di ghiaccio, simbolo di gente incapace di fare i conti con i propri errori, prigioniera di un sistema che non ha più niente da offrire se non una fuga continua, 

un movimento senza scopo. Il transumanesimo è forse l’ultima forma di questa fuga. La fuga dal corpo, dalla fine, dalla morte. Un tentativo disperato di fare diventare l’uomo un oggetto tecnologico, una reliquia hi-tech.

Il cibo. La fissazione per il cibo nei mondi distrutti. Merce di scambio, simbolo di potere, strumento per comandare la società. Il latte materno in Mad Max, preso con la forza e venduto. Le barrette proteiche in Snowpiercer, date in modo diverso a seconda della classe sociale. Il cibo in scatola ne La Strada, tesoro da difendere con la vita. La spezia di Dune, il melange, motivo per guerre nello spazio, eco delle nostre guerre per il petrolio, per le terre rare, per il litio, per le materie prime che danno forza alla nostra fame di tecnologia. Tutto questo è una immagine esagerata, forzata, ma non per questo meno vera, di come siamo divisi nella società, di quanto siamo materialisti, di quanto vogliamo consumare, avere cose, possedere.

Snowpiercer e Arrakis, il treno e il pianeta deserto. Simboli forti, di oggi, di un capitalismo che vuole sempre di più, e distrugge il pianeta che lo ospita. Un sistema che crea differenze, che usa le risorse fino a esaurirle, che affama, provoca guerre e distruzione. Il paesaggio dopo la fine, sabbia, ghiaccio, lamiere, è lo specchio di questa epoca geologica che abbiamo iniziato, l’Antropocene, l’epoca in cui l’essere umano è diventato una forza della natura, capace di cambiare gli equilibri del pianeta.

George Miller in Fury Road mostra un caos veloce, una danza di morte e dolore, la civiltà finita, a pezzi. Miyazaki in Nausicaä, anche se il mondo è avvelenato, offre un’immagine di equilibrio fragile, ma ancora possibile, tra uomo e natura. L’acqua, bene raro e conteso in Dune, in Nausicaä diventa un bene comune da proteggere. Un’acqua che è già oggi, nella realtà, causa di conflitti, di tensioni, di guerre silenziose. Snowpiercer e The Road, due modi estremi di reagire al disastro. L’illusione di controllare tutto con la tecnologia, la pretesa inutile di comandare la natura con la tecnica, e la disperazione totale, la perdita di ogni etica, di ogni speranza.

Anche dopo la fine possono nascere cose belle. Nausicaä indica una via d’uscita, un equilibrio che unisce uomo e natura. Il giardino tossico di Miyazaki non è un campo di guerra, ma una natura che rinasce. La presunzione dell’uomo deve lasciare spazio all’ascolto, alla comprensione, al vivere insieme. Occorre imparare a leggere il vento, usare le vele, senza voler comandare la natura.

Le tute Fremen, le città senza acqua, i gel proteici. Il futuro è già qui. Nascosto nei documenti dell’ONU sul clima, nei numeri sulla desertificazione, nei racconti delle guerre per le risorse. L’etica finisce prima dell’acqua. Guardando questi mondi distrutti, dovremmo fermarci. Prima che lo schermo si spenga, e il deserto diventi casa.