Melting Pop

Lunga vita al live

di Marika Zandanel

Nel 1970 usciva Woodstock, un documentario diretto da Michael Wadleigh, che avrebbe vinto il premio di categoria agli Oscar dell’anno successivo, raccontando il concerto della storia. Punto di riferimento nelle bocche di chi ne parla tanto per fregiare una plasticosa vena rock e anche di chi conosce a memoria almeno la scaletta di una delle giornate: Woodstock non è mai stato schizzinoso, ha sempre preso tutti, tantissimi, purché nudi e sudati. Solo gli anni Sessanta e quello che si definiva rock potevano portare a un’aggregazione tale, ma ora più che mai il pop, figlio illegittimo di quel genere, prova a prendersi qualcosa.

Perciò non ci si può voltare di fronte a fenomeni che hanno chiuso l’anno come The Eras Tour e Renaissance: a film by Beyoncé, prodotti costruiti non solo per il fandom e il vil guadagno, come alcuni scettici potrebbero pensare. Testimoni esemplari di ciò che tutta la musica desidera, ma che solo quella popular ha il coraggio di ammettere senza ritegno: la riunione di più persone possibili cantanti e gridanti, il bagno di folla. E la settima arte sempre a servizio.

Non è una novità, ovviamente. Solo per citarne alcuni: Ziggy Stardust and The Spiders from Mars (1979), Madonna: Truth or Dare (1991), Michael Jackson: This Is It (2009), Justin Bieber: Never Say Never (2011), senza dimenticare Billie Eilish: Live at the O2 (2023) e, per citare qualcosa di nostrano e vagamente simile, Vasco Modena Park (2017)

Il cinema ha sempre avuto un occhio di riguardo per catturare il live, renderlo ancora più vivente di quanto non lo fosse al momento, allungandone la memoria e, soprattutto, l’esperienza. Soltanto che, con l’eccezione di Michael Jackson, prima questo tipo di esperienza era appannaggio del solo fan, del fedele adepto che sviene al concerto, ma che ri-sverrebbe tranquillamente anche sulla poltrona (al costo di sette euro, se va bene) del film concerto di quel concerto specifico. Ora non è più così, non serve essere una swiftie per godere di The Eras Tour (che condivide con il film concerto di Billie Eilish la regia di Sam Wrench).

Non è solo per lo spettacolo della scenografia, le impalcature, il momento in cui Taylor Swift si tuffa nel palco (letteralmente, sfido chiunque a non farsi comprare da quell’attimo). Si arriva ad apprezzare l’artista in sé, la sua musica, senza giocare di sottrazione perché magari fai parte della maledetta categoria di chi detesta il maledetto pop, ma almeno riconosce la sfarzosità del fondale, lo show. Diciassette anni di carriera condensati in quasi tre ore di concerto, in particolare quello tenutosi al SoFi Stadium di Inglewood, Los Angeles.

Un disco appena uscito nel 2019, poi la pandemia, la cancellazione del tour, altri tre album pronti e quelli precedenti nuovamente incisi per non perdere i diritti sulle registrazioni della ex casa discografica. Nasce così un tour mastodontico in cui la cantante si presta a ripercorrere tutte le sue “ere” e che diventa una vera e propria operazione narrativa: raccoglie sé stessa e tutto quello che negli anni ha attraversato con la sua musica, senza rinnegare nemmeno una versione di sé, ma accogliendole tutte. Cambiano gli album e cambiano i vestiti di scena a seconda dei suoi momenti storici e quella che si mostra sul palco è una vera operazione di metamorfosi personale, un’accettazione che negli anni le è costata fama e reputazione (gli swifties sanno, gli spettatori ignari capiscono).

Ci aveva già provato – come poi Billie Eilish nel 2021 col riuscitissimo The World’s A Little Blurry – a raccontarlo in Miss Americana (2020), un documentario quasi d’autore, quasi d’inchiesta (in un tempo in cui, se non vediamo la pop star scrivere i testi di proprio pugno, gridiamo all’incapacità, mentre invece c’è un impegno enorme, produttivo e creativo), abbastanza sincero da risultare credibile.

Qui lo fa col mezzo che le è più congeniale, la musica, la vocalità, il live che diventa sempiterno. 

Anche Beyoncé procede similmente col suo Renaissance: a film by Beyoncé, opera magna dove lei balla, lei canta, lei sceglie le inquadrature. Con l’unica differenza che, al posto di riferirsi ad una tappa sola, si esplorano più date, un florilegio di outfit e performance, dove si cerca di ibridare definitivamente il film concerto al documentario.

In Renaissance c’è, oltre al tour, quello che Taylor Swift cerca di fare in Miss Americana, ovvero uno spazio dedicato alla persona dietro l’artista, alla persona-artista, alla persona-persona: che si ritrova a interfacciarsi col tempo che passa (sì, quarantadue anni e non sentirli), che ha una famiglia, che ha un rapporto con la sua troupe, col suo corpo, col suo corpo di ballo. Non si gioisce solo di lei, ma si può anche vedere meglio – e non intendo l’effetto di meraviglia che i canali HD hanno sulla risoluzione dei capelli – il lavoro dei ballerini, dei musicisti, l’importanza di ogni data come un luogo di non-giudizio.

Vuoi mettere stare nell’angolo di uno stadio immenso e vedere poco e nulla? Voglio mettere, sì, ma il film concerto sta rifondando un’esperienza, non solo quella del live. È anche l’esperienza del cinema stesso, che forse ci dimentichiamo essere teatro di un momento non poi così solitario, ma che è invece iconico, di mescolanza e aggregazione. Lustrini che illuminano meglio la caverna platonica, che bello.