
NOSFERATU DI EGGERS
Il suono che arriva prima dei corpi
di Marika Zandanel
Il Conte Orlok si è risvegliato. E per di più benissimo, e per di più parlante. Di una voce grave che Bill Skarsgård ha ottenuto esercitandosi con un cantante d’opera, l’unico elemento fra tutti che meno è stato lavorato in fase di editing, a detta del sound designer Damien Volpe che già aveva affiancato il regista Robert Eggers in The Lighthouse e The Northman. È vero, Herzog ci ha consegnato la versione “non muta” già nel 1979 in un riverbero gotico incessante, ma è Eggers a partorire il vero fratello elegantemente chiassoso di Murnau. Qui il suono si fa più che strutturale, impregnando il film per anticiparne ogni micromovimento, tendendo lo spettatore a sé come a richiamare col flauto, sempre più vicino, la testa di un serpente a sonagli.
Ancora sotto incantesimo dalla sensazione di ipnosi provata in sala, cerco di capire come il suono sia stato concepito per il remake, ripensando alla sequenza iniziale: un groviglio di respiri anticipa l’immagine, sono gli aneliti di Ellen Hutter (Lily-Rose Depp) e del Nosferatu (Bill Skarsgård) che si intrecciano, animaleschi e istintuali, ma pur sempre leggermente metallici.
Mi colpisce come Robert Eggers racconti di aver voluto restituire un leggero tono metallico dopo ampie ricerche con la costumista Linda Muir sull’abbigliamento tipico dei nobili della Transilvania, sempre corredato da calzature col tacco in metallo: il Conte Orlok come personaggio sonoro è indistinguibile, portando con sé questo leggerissimo sapore metallizzato e un’eco sovrastante all’interno del castello. L’accento marcatissimo è diluito in un parlare lento, intervallato da profondi respiri a cui il castello fa da cassa di risonanza: le mura, corredate da porte che cigolano finemente, spandono la voce baritonale di Skarsgård e gliela restituiscono nell’immediato come fosse – e qui cito Eggers – una risposta emotiva alla situazione che si sta vivendo.

Il respiro del vampiro è ovunque, ma così quello di Ellen che pare esistere da sempre nel castello e poterne trapassare le mura come colui che la tormenta. Sembrano cercarsi con i loro rantoli, il suono come proprio linguaggio d’amore preferenziale: la tenda che si scosta, lo scricchiolio delle membra nelle sequenze di possessione di Ellen, lo sgorgare del sangue – o meglio il suono nell’atto dell’ingoiare il sangue, quel gorgoglio – il sostitutivo perfetto di un grido d’orgasmo che c’è ma che da solo sarebbe cosa sin troppo umana. Persino l’odore dei fiori si sposta dal piano olfattivo per diventare pienamente sinestetico ed è così che un semplice annusarli (sia per Ellen che per Nosferatu) significa prima di tutto far sentire che li si è annusati, farlo sentire all’altro/a come pegno e riconoscimento d’appartenenza.

In quest’idea di ultrasuoni che vengono enucleati ed estroflessi come se due balene dovessero parlare umanamente, c’è però una sequenza cardine dal punto di vista sonoro che mi ha lasciato a bocca aperta. Thomas Hutter (Nicholas Hoult) è senza cavallo, al buio, nel bosco che segna il passaggio inquietante nei pressi della dimora del conte. C’è un silenzio assordante, minuscoli fiocchi di neve si mescolano alla notte e Thomas guarda davanti a sé, distrutto. Ad anticipare quello che verrà un battito cardiaco sempre più intenso e zoccoli di cavalli infernali mixati e mescolati perfettamente.
Per tutto il film è l’ambiente, sono gli oggetti e le cose esterne a farsi carico di trasportare il vero suono dell’emotività dei personaggi (che solitamente proverrebbe da loro) e anche per questa scena è così: la paura di Thomas, il suo battito accelerato non scaturiscono dal suo torace, ma gli (e ci) vengono consegnati con un’operazione inversa. Il suono del cuore viene trasportato dai cavalli assieme al loro galoppare, avvicinandosi sempre più, quasi a travolgerci, per poi ripiombare nel silenzio.