ABBECINECEDARIO: I come Infanzia

I come Infanzia

di Alessandro Faccioli

Dà da pensare quel che Serge Daney, noto critico e studioso francese, ha scritto a proposito dei film che nella nostra vita vediamo “in ritardo”, fuori tempo massimo. Incontri che facciamo quando non possono più segnare a fondo la nostra vita, quando possono influire su di noi solo fino a un certo punto. E non come avrebbero potuto fare nel momento della nostra massima disponibilità, al tempo della plasmabilità assoluta del nostro essere a contatto con immagini in movimento, storie e suoni pronti a indicarci la strada, a consentirci di conoscere meglio il mondo e di evolverci di conseguenza, suggerendo affinità e soluzioni ai nostri dubbi quotidiani, toccando registri artistici, morali, spirituali, comportamentali cui siamo sensibili. O a contatto coi quali ci scopriamo sensibili. Non solo per far nostre le battute di un eroe carismatico, che se la sa sempre cavare e che ci può far comodo imitare, o le scelte intransigenti di un personaggio cui vorremmo somigliare, ma, soprattutto, per veder compiuto in noi un percorso di avvicinamento a un paesaggio estetico che ha la forza di metterci a nudo al cospetto di noi stessi. E non solo per la storia raccontata ma per l’immagine in sé, che fa tornare compulsivamente a momenti e gesti privilegiati lo «spettatore possessivo» di cui parla Laura Mulvey: uno «spettatore feticistico» che nelle immagini che lo attraggono investe senza risparmio le sue emozioni e il visual pleasure che ne consegue.

Come dice Alain Bergala in L’ipotesi cinema, al momento dell’incontro con il film giusto, nell’infanzia, nella prima giovinezza, «ci si accontenta di raccogliere stupiti l’enigma e di accusarne il colpo, il potere di sconvolgere. Verrà più tardi il tempo della chiarezza, e potrà durare venti, trent’anni, o tutta una vita», con film che lavorano silenziosamente dentro, reagiscono in sordina e deflagrano grazie a rinnovate visioni, con la propria imprevedibile attualità, in una fase nuova della nostra esistenza. Perciò è tanto importante il compito che la scuola ha (l’ennesimo!), perché per la maggior parte dei giovani essa costituisce l’unica via che può favorire l’incontro dalle potenzialità imprevedibili con opere di qualità e la costruzione di un personale gusto cinematografico che evade la banalità ottusa del mainstream, buono per il mercato globale e l’anestesia della ragione.

Bisogna dare dunque tempo a un’opera vista in quel magico momento opportuno, come ricorda Philippe Arnaud: «Ogni immagine illumina, in questa carestia simbolica dell’infanzia: non solo se stessa, ma, per l’anticipazione immediata di un’istanza che ci è estranea, prefigura una possibilità di noi stessi dalla quale siamo scelti: è un confluire di immagini necessarie che ci designano e compongono una sorta di destino che ci aspetta, un sapere deviante perché è in anticipo su di noi, segnati ogni volta da un punzone irrimediabile per cui sappiamo che quella cosa ci riguarda senza sapere perché».

Sono così sottovalutate le potenzialità dei piccoli spettatori davanti a uno schermo, grande e piccolo! Si pretende troppo poco da loro, se non di consumare un prodotto – seriale e animato, ipercinetico e privo di contenuti e dialoghi accurati – che con la ricerca del bello ha poco a che fare. Rari casi a parte, ci si accontenta della formula, ci si arresta pigramente di fronte all’idea che ciò che è nuovo annoi, mentre la storia del cinema e i film potenzialmente decisivi sono in attesa, a braccia aperte, ma non verranno mai presi in considerazione da genitori che non conoscono, insegnanti che non suggeriscono (perché a volte non conoscono), media e piattaforme che non sono interessati a far conoscere. La visione condivisa con gli adulti, non strumentale, non “illustrativa”, di alcuni film (o estratti di film) d’avanguardia, di “classici” in bianco e nero, di capolavori del cinema d’animazione europeo, di film non per forza di finzione, dalla durata variabile, lascia segni indelebili. A nessuna età fa male osservare sbalorditi, emozionati, realmente commossi e partecipi.

Per tornare a Daney: non sono poi tanto sicuro che i film visti fuori tempo massimo non possano egualmente segnarci, con la nostra complicità non passiva. Se la rassegnazione scopica non ha ancora fatto a pezzi il mondo nel quale agiamo. La settimana scorsa ho recuperato un film di Mizoguchi che da trent’anni mi attendeva e che per diverse ragioni non avevo ancora avvicinato. Sono sette giorni che il pensiero torna a quella immagine, a quelle voci di una lingua che mi è ormai familiare ma che non conosco. Sento che quel film sta lavorando, lentamente. Non so dove arriverà. Ne riparliamo tra vent’anni.